Belluno
(Belùn in veneto)
Geografia
La parte antica della città di Belluno sorge su uno sperone di roccia in prossimità della confluenza del torrente Ardo con il fiume Piave. A nord si stagliano verso il cielo l’imponente gruppo dolomitico della Schiara (2565 s.l.m) con la caratteristica Gusela del Vescovà, il monte Serva (2133 s.l.m) e il monte Talvena, mentre a sud le prealpi separano il Bellunese dalla pianura veneta. Sempre a sud, nella zona del Castionese, si erge il Nevegàl sul quale sono situati impianti di risalita e piste da sci.
Storia
Gli storici fanno risalire le origini della città al V sec. a.C, quando i popoli Venetici e Celti si insediarono nel territorio. Dai Celti, inoltre, deriverebbe il nome della città: Belodonum, “altura luminosa”. Plinio la indica come città dei Veneti e, nel II secolo a.C., alleatasi con Roma, divenne municipio romano. Passò poi in varie mani (Ostrogoti, Goti, Bizantini, Longobardi e Franchi) finché, con Ottone il Grande (973), divenne feudo dei conti-vescovi fino al sorgere del Libero Comune. Conquistata da Ezzelino Da Romano (1249) e dai Da Camino, nel 1325 passò agli Scaligeri; poi fu la volta dei Carraresi, di Galeazzo Visconti (1388) e, da ultimo, del dominio della Repubblica Veneta durato dal 1404 al 1797. Passata agli Asburgo dopo la parentesi napoleonica, rimase nel Lombardo-Veneto fino al 1866, anno dell’annessione al Regno d’Italia.
Promontorio Fortificato
Dalle osservazioni fatte si ricava che la particolare posizione di Belluno, circondata per tre lati dall’Ardo e dal Piave, ricalca le impostazioni di uno schema urbano difensivo antico. Il miglior esempio di elemento naturale migliorato dalle fortificazioni si ha in quel tipo di struttura difensiva che viene chiamato «promontorio fortificato». La forma classica di questa fortificazione è quella del promontorio vero e proprio, circondato su tre lati dalle acque marine, lacustri o fluviali o da scarpate inaccessibili il cui istmo viene tagliato da fossati, terrapieni che sbarrino l’ingresso al promontorio a chiunque provenga dalla «terraferma».
L’unica linea di attacco possibile è quella che segue la cresta delle colline e tale linea si presta bene ad essere sbarrata da fortificazioni che difendono il promontorio. Belluno non nacque quindi, come molte città, su un asse definito da traffici, o su un incrocio di vie commerciali, ma fu pensata da una mente che immaginava di costruire un insediamento militare fortificato ben difendibile. Questo insediamento difensivo, in origine, ha come limite Nord un fossato e probabilmente una semplice difesa di palizzate. Su tale linea, che costituisce ancor oggi il limite Nord del centro storico, sono ora allineate Porta Dojona, Porta Dante (Ussolo o Reniera) e Porta Castello, ora scomparsa. Belluno ha quindi le caratteristiche di una «città fondata», pensata secondo le logiche della fortezza classica, in accordo con le leggende tramandateci dagli storici locali che la vogliono fondata dai Romani.
La fondazione della città ove prima era aperta campagna. ci è confermata dalla mancanza di reperti preromani a Belluno: i reperti iniziano improvvisamente dal periodo romano.
Città Fortezza
La prima notizia certa sulle mura di Belluno è riferita alla cinta costruita attorno al 980 dal Vescovo Giovanni Tassina. «Fece fortificare la cittade, circondandola di muraglia e fosse: operò che li cittadini […] fabbricassero torri di molta altezza.» (G. Piloni) Vediamo dalla ricostruzione che sul lato Nord, a destra e a sinistra, ci sono due elementi chiusi, due castelli: il lato debole (con assenza di barriere naturali) è appunto questo e a ciò viene sopperito con la costruzione di due castelli: uno all’estremità Nord Ovest (detto il Castello) ed uno a quella Nord Est (detto il Doglione).
Tra i due una spessa muraglia, con torri ravvicinate, ed un antistante fossato garantiscono la difesa della città. La torre più possente di tutto il sistema difensivo è posta sulle mura Sud: la torre di San Marco esterna alla Porta di Rudo (o Rugo) dalla quale si scendeva a Borgo Piave. Da qui si aveva accesso al porto fluviale e quindi al ponte ed alla riva sinistra. In una fase successiva all’assedio del 1248, portato da Ezzelino da Romano, il castello Doglione comincia a perdere importanza soprattutto per i danneggiamenti che viene a subire. Le conseguenti trasformazioni dell’impianto delle mura tengono in particolare considerazione il nuovo armamento d’attacco venuto in uso con l’avvento delle prime armi da fuoco.
Belluno, come altre città del Veneto, aggiorna i suoi sistemi di difesa per poter eventualmente sopportare un periodo d’assedio molto lungo (pericolo di invasioni turche). In questo periodo in tutta Europa le mura vengono allargate ed abbassate, le torri tagliate e munite di artiglierie. A Belluno, per allargare la cinta antica, si pensa bene di costruire una cinta mura-ria esterna alla precedente, chiamata «contromura», alla distanza di qualche metro dal-l’antica. In questo modo, riempiendo di materiali lo spazio tra le mura, si ottiene un unico muro di grande spessore. Le mura interne, che sopravanzano quelle esterne, consentono inoltre due ordini di tiri. Questa trasformazione eseguita tra i due castelli (sul lato del «Campitello») è completata, probabilmente, da un passaggio interno, ricavato a livello del suolo tra le due mura, adatto a spostare velocemente truppe da un lato all’altro a seconda delle necessità.
L’opera iniziata nel 1394 è terminata nel 1427, mentre il Castello, sul lato verso la città, è munito di nuovi spalti nel 1411. Subito dopo si passa a sistemare l’angolo destro, con l’aggiunta del Torrione tondo esterno, ancora esistente (El Torrion), dal quale si può posizionare dell’artiglieria pesante, in grado di battere con un angolo estremamente ampio tutto il lato Nord, e di effettuare, inoltre, tiri radenti sull’esterno delle mura, trovandosi praticamente fuori della città stessa. Al centro delle mura, ma sporgente da queste, vediamo sorgere in questo periodo un bastione pentagonale, che ancora oggi riconosciamo dagli spessori delle murature verso il Campitello (metri 3.5) nel palazzo chiamato attualmente «Palazzo S. Marco».
Questo punto forte viene introdotto probabilmente in avanzamento ad una torre esistente. Il suo ruolo è fondamentale poiché rompe in due settori il tratto di mura Nord, consentendo di posizionare artiglieria pesante e permettendo un fuoco di fiancheggiamento indispensabile in caso di assalti. Le torri esistenti troppo alte e troppo vicine vengono abbassate ed utilizzate come ulteriori postazioni di tiro. Verso la fine del secolo tutto l’apparato di difesa è stato rivisto e si presenta efficiente ed adatto a difendere la città secondo le più moderne tecnologie dell’architettura militare del tempo. «La città è cinta di due man di muraglia merlata e torreggiata all’antica, che fa bel vedere».
Ruderi e tracce storiche
Il Castello
Cominciamo dal castello del lato Nord Ovest: un castello quadrilatero con quattro torri angolari e un fossato verso l’esterno. L’unica via d’accesso era all’interno della città: solo dopo il 1620 viene aperta una porta verso il Campitello. Il Castello aveva torri alte, quadrilatere; il basamento di una di queste è ancora esistente all’interno di un fabbricato di proprietà della Banca di Novara.
Le Mura Nord
Un aiuto per lo studio del lato Nord delle mura è rappresentato da un documento che illustra una causa per il possesso di un tratto delle stesse verso il Campitello. Questo ci lascia chiaramente vedere come ancora nel 1705 erano in piedi le mura ed una parte delle contromura, che però erano chiamate «altana» e costituivano in pratica un lungo terrazzo. Il grande favore che ci fa questo documento è anche quello di consentirci una stima approssimativa dell’altezza delle mura perché nel lato sinistro si vede che sul retro delle mura c’era addossata una casa. Si vedono cioè quattro ordini di finestre ed un tetto che sporge sopra. Quindi, considerando l’altezza dell’altana e quella delle mura con quattro ordini di finestre, dobbiamo pensare che Belluno aveva le sue mura antiche (quelle del 1000) di una altezza pari a 13-15 metri: altezza di tutto rispetto, difficilmente espugnabile.
Il Torrione
Un’altra cosa rimasta è il Torrione tondo che un tempo si intravedeva chiaramente emergere dalla struttura urbana. Adesso non è più visibile tranne che dal lato dell’Anta, perché una serie di fabbricati posti davanti impediscono una visuale diretta. Fotografato dai tetti vicini, il Torrione si presenta con il grande Leone di S. Marco incastrato, prospiciente un’area ridotta a giardino interno. Questa torre fu vista e descritta da Marin Sanudo, nei suoi viaggi, nell’anno 1482.
Angolo Mura Sud-Ovest
Ancora visibile nelle vecchie cartoline degli inizi del secolo è il tratto di mura a Sud, nella zona soprastante il Ponte della Vittoria, con i resti di un torrione angolare.
Il Bastione Pentagonale
Dove era il centro delle mura del lato Nord, al piano terra del Palazzo S. Marco, è ancora riconoscibile una parte sporgente costituita da un muro con uno spessore di tre metri e mezzo. Si tratta della punta di un bastione del 1450-1480 circa, costruito davanti alle contromura nel punto centrale della piazza tra i due castelli. Il fatto che adesso sia così poco sporgente dalle strutture abitate indica che, venuta a cadere con il tempo la funzione difensiva, le costruzioni sono state addossate da tutte le parti alle mura coprendo il bastione sporgente, assorbito all’interno del fabbricato.
La Fine della Città Fortezza
Dopo il 1500, la nascente moderna artiglieria cambia il modo di fare guerra. I problemi che seguono sono quelli che derivano dai tiri dei cannoni che arrivano nel giro di 40/50 anni a una potenza di fuoco micidiale e a un tiro di circa 1800 metri contro i 200 massimi che avevano prima le artiglierie a corda e le bombarde. Le difese delle città si impostano su bastioni a freccia per poter evitare il «tiro diretto» e le mura si trasformano per far sì che i tiri giungano sempre inclinati e quindi smorzati. Tutto il sistema difensivo della città di Belluno risulta ben presto superato e inutilizzabile. Infatti già nel secolo XVI si scrive: «Di fortezza non occorre parlarne, essendo [Belluno] circondata da mura, vecchie, alte ed inutili ed il castello tutto rovinato (…)» (E Soranzo Rettore Veneto)
Documenti Storici: Le Cronache
Dopo una descrizione sommaria delle mura per poter comprendere appieno l’importanza e meglio valutare la potenza di Belluno nei tempi andati, vale la pena di riportare le cronache relative agli assalti che la videro protagonista.
1248 — L’Assedio di Ezzelino da Romano
“[…] la città era assai forte di muraglia et de monitioni, et piena d’una gioventù bellicosa: dal che si poteva prometter gagliarda difesa […].
Essendo la città ben provvista de Mangani, saettamenti, petriere con sassi, travi, pentole e vasi di terra pieni di solfo, piombo e raggia, per poterli lanciar sopra nemici, disponendoli per le torri e per li merli in ogni loco. Stavano il dì e la notte aspettando con gran d’animo l’inimico, quando una mattina per tempo del mese di Agosto si sentite il campanon a martello, e le trombe, li cornetti per tutte le guardie con i tamburi all’acme risuonare sendosi scoperto, che il campo di Eccelino s’avvecinava alla cittade: corsero tutti con l’arme indosso alli lochi a loro deputati.
Chi per difesa delle mura e delle porte, chi con calce, pece, et olio bolito per gettar adosso l’inimico, che tentasse salire la muraglia. Gionto Eccelino comandò che fossero empiute le fosse: e dato un’assalto alla cittade per por maggior terrore alli assaliti, e facendo appoggiar le scale alla muraglia con ruote e travi, che tirate con grand’ingegno si movevano: procurando con balestre e frezze di levar la difesa dalle mura. Fu dato un fiero assalto verso el Campitello così alla porta Doiona, come all’Ussolo, con tanti gridi, strepiti e romori, che pareva che volesse la terra subissare: cacciandosi Eccelino tra li primi per maggior-mente i suoi inanimire.
Difendeva questa parte della città Carlone da Libano, Vizardo de Foro, Aicardino dalla Valle, Giroldo de Vareschi, Azzone delli Azzoni, Ditino da Sergnano, Tebaldo di Corte, Gerardino de Borzani con molti altri Bellunesi: Havendo ognuno di loro in compagnia una squadra de valorosi soldati. Scorreva attorno la muraglia Biaquino da Camino con una banda di gente eletta, soccorrendo dove vedeva il maggior bisogno, le porte erano con forte sarracinesche chiuse e li ponti levatoi alciati. Si sentiva un fracassar di scale e una così gran rovina con fumo e polvere, che faceva horribile e spaventosa vista alli risguardanti.
Restaron molti feriti dall’una e l’altra parte, e molti occisi in questo primo assalto, essendo dato con grand’animo, e con maggior difesa Vedendo Eccelino la gran mortalità de suoi e poco sperando da questa parte intrare, fece verso il tardi del giorno andar buona parte de suoi soldati al loco, dove si vede hora il Torrione, credendo ritrovar quei luochi poco difesi e facendo condur ivi gatti tessuti de venzi, con baltresche di cuoio cotta Ma ritrovò maggior difficultà, che ei non pensava, così per la fortezza et altezza della muraglia, come per quelli che stavano in quella guardia retinati, perché scopertisi Vido della Torre, Brizale e Dondolo de Spiciaroni, Merlino Crosdecalle, Amadasio e Pietro Doglioni, Ottavian Tasina con altri Bellunesi fecero nelli nemici così gran rovina, che molto più presti furono al retirarsi che non erano stati a venir ad assalirli. Per tutto si od/vano li Corni, nachare, e tamburri a risonare, che mischiati co’l suono delle trombe e de molti cridori e voce pareva che il cielo rimbombasse.
Li giorni seguenti fu data la battaglia alla porta di Rudo et alla Pusterla di Pagani: dove valorosamente si portorno Tiso da Casteo-no, Odone Bilitono, Barrata da Bolzano, Viventio da Ponte Manfredo e Ricobaldo de Noxadani. Fu presa però la Torre, qual soprastava a detta porta di Rudo. Et mentre che tentavano li nemici de piantar ivi lo stendardo di Eccelino, sopragionse per il corri-tor della muraglia Biaquino con Romano et il Vecchietto da Casteono, che con molta gente armata andavano qua e là scorrendo per le mura: Et fatto impeto in quelli, ch’erano sopra la muraglia ascesi, li precipitorno dalla cima al basso, non essendoli dato tempo de ritrovar le scale. Non parse ad Eccelino di tentar l’espugnatione del castello, vedendolo molto forte così per le torri, che lo circondavano, come per l’altezza e grosezza della muraglia. (…)“. (G. Piloni)
Visti vani i propri tentativi, Ezzelino toglie l’assedio e si ritira a Padova. Solo l’anno successivo, Belluno isolata si arrende.
1404 – I Veneziani aiutati dai Ghibellini entrano in Belluno e assaltano il Castello
“[…] giunsero di là del ponte di Piave le genti della ducale Signoria di Venezia, cioè settanta cavalieri e settecento pedoni e balestrieri, che venivano in ajuto dell’illustrissi-mi nostri signori e dei ghibellini. […] passarono tutte le predette genti dei Veneziani colla bandiera di S. Marco e del detto messer Lodovico Giustiniano da Venezia, podestà di Serravalle; e, venendo per sotto il castello della detta città, arrivarono al rastrello del detto borgo di Campitello, posto sopra la fossa […] e i ghibellini, tenuta deliberazione […], introdussero di quelle genti in città circa venti uomini, (coi quali) ebbero discorso di ciò, ch’era da fare; e convennero che si dovessero ricevere alcuni balestrieri per difesa della città, e che gli altri rimanessero nei borghi. E così si fece. […]
L’anno del Signore 1404 […], nella Domenica del 18 Maggio, ch’era la festa delle Pentecoste, le genti dei Veneziani, capitano delle quali e luogotenente della Signo-ria di Venezia a pigliare il possesso e la tenuta del dominio della città di Belluno era il nobil uomo Antonio Moro di Venezia, si adunarono nella contrada di Rudo della detta città. Il clero di Belluno, colle croci e col confalone, e coi confaloni altresì delle pievi, mosse loro incontro processionalmente col popolo fino alla Piazza di S.ta Croce. E la processione si fece a questo moda Andavano innanzi molti villani, portando erbe verdi, delle quali sparsero tutta la strada fino alla piazza della città e la piazza medesima.
Dietro ad essi veniva la processione: e primi i Frati Minori, indi le croci e i confa-loni delle pievi e delle confraternite, poi le croci e il confalone della chiesa cattedrale col clero e col Capitolo della chiesa medesima, che cantavano inni di allegrezza, quindi il popolo della città portando in mano rami di alberi. Seguivano alcuni Veneziani a cavallo, che tenevano in ordine le genti seguaci; e subito dopo di essi procedevano a tre a tre 150 balestrieri con sei bandiere innanzi. E così arrivarono in piazza. Di poi altre sei bandiere di stipendiarii pavesati fecero similmente il giro di tutta la piazza, con innanzi i pifferi della città.
Venne poscia a cavallo un nobile Torresino de la Parte, cittadino di Treviso, marescalco di quelle genti, a ordinarne le file; indi alcuni altri a cavallo, e in mezzo ad essi il vessillo di S. Marco, […]. Appresso venivano i pifferi e i trombetti suonando; e subito dopo il sopraddetto messer Antonio Moro da Venezia, guidato alla briglia e circondato da otto cittadini nobili della detta città di Belluno; e al suo giungere in piazza tutte le campane della città suonarono a martello. Tel Castello vi sono però le truppe dei Visconti, poiché in quel tempo Belluno è sotto la protezione della signoria di Filippo Maria Visconti (essendo egli minorenne il governo è tenuto da «Madonna la duchessa di Milano»).
Nella notte la città si teneva in guardia e gridava in onore del buon Comune di Venezia; e a rincontro in castello si gridava in onore di messere il duca di Milano. Nel lunedì del 19 maggio l’oltrescritto ser Torello, castellano del castello della detta città di Belluno, diede risposta che non voleva consegnare il castello stesso finché avesse viveri, o finché l’illustrissima madonna la duchessa di Milano non gliene mandasse i segnali. Ciò udito, il prenominato luogotenente messer Antonio Moro fece tosto allestire le balestre, i balestrieri e le bombarde per espugnare il castello; e il castellano, ciò vedendo, cominciò a lanciare bombarde e verettont e i cittadini di Belluno insieme cogli altri stipendiarii accerchiarono armati gli accessi e le porte del castello dentro e fuori della città; e posero una bombarda sulla casa dell’orefice Bartolomeo Mazzucchia, quella che già era stata di Paolo delle Campane, e giace nella contrada di Ussolo.
Quindi Gregorio da Salce drizzò la detta bombarda verso la torre posta sovra il ponte del castello, dov’era la saracinesca; e al primo tiro ne colpì la ghirlanda, e colse nel ginocchio uno de’ compagni del castellano, che là era, e gli portò vi tutto il piede; del qual colpo quegli dopo quattr’ore morì. Davasi intanto all’una e all’altra parte del castello sì fiero assalto, che il castellano non vi si poteva tenere. Erano infatti già tagliati i rastrelli, e si lavorava gagliardamente a rompere la portello di dentro; e il detto castellano non poteva più resistere, tanto più che avea pochi compagni alla difesa. In pari tempo durissimo assalto gli era dato dal borgo di Campitello; e già erano appiccate le scale al muro del castello; e Bartolomeo da Miero, e Cristoforo, figlio di Giovanni da Mussojo, erano montati sul ponte del castello stesso, e vi aveano piantato lo sten-dardo di Venezia.
Fra tutto ciò una trombetta appressossi al castello dentro la città do-ve era la mischia, e da parte del detto messer Antonio Moro proclamò ad alta voce, che, se alcuno gli desse vivo il castellano, ne riceverebbe tosto dal Comune di Venezia 1500 lire di piccoli; se morto, ne avrebbe 1000; se qualcuno de’ suoi figli, ne guadagnerebbe 500; e che, chi desse il castellano, ne avrebbe anche tutti i beni e le munizioni; e che qualunque de’ suoi compagni volesse gettarsi giù dal castello, od uscirne, riceverebbe dieci ducati d’oro e sarebbe scritto allo stipendio dei Veneziani. Udendo quelle grida, il castellano si costernò grandemente; e, poiché frattanto l’assalto ingagliardiva, nè poteva impedire che finalmente non entrassero nel castello, decise di chiedere patti. Prima però di essere ascoltato dovette calare il vessillo del Biscione, ch’era spiegato sulla torre grande del castello; e quindi pattuì che consegnerebbe il castello, salvo l’avere e le persone, e che gli fossero pagate le sue munizioni. Ciò convenuto, consegnò il castello a tredici ore di quel giorno stesso; e con gaudio e allegrezza grande vi fu rizzato il vessillo di S. Marca.” (C. Miari)
1510 — Il Generale Mocenigo fa Cannoneggiare le Mura di Belluno
“[…] Ordinarono nel principio di Agosto a Giovanni Diedo Proveditore, che andasse con le gente a debellar la città di Belluno: il qual accompagnato da Giacomo Moro, Pietro Trono, Ieronimo Veniero, et Giovanni Vituri Provisori et Capitanei della Mota, Sacille, Oderzo, et Serravalle con più di Seicento huomini adunati da quei paesi, s’appresentò alla città, il quarto giorno del ditto mese, minacciando voler la roba, et le Donne in poter de suoi soldati. Et non attendendo risposta alcuna, dettero un feroce assalto alla porta di Rudo, estendendosi sin alla torre del S. Marco: tentando di salir le mura con longhissime scalle, presentandosi sin appresso i merli della muraglia. Ma non facevano minor difesa li Assaliti: Era nella città Andrea Lieterstainer Locotenente per l’Imperio, il qual doppo l’aquisto di Cividale [di Belluno] prevedendo quello, che poteva avvenire, si era quivi continuamente fermato, et haveva ben monita, et presediata la città. Era egli da Bellunesi molto amato, poi che dall’incendio et dal sacco li haveva preservati. Onde si mostrava ogn’uno disposto al suo favore affaticandosi, che non intrassero li assalitori, che li minacciavano, et la desolatione et l’ultima rovina.
Se ritrovavano dentro dalle mura quattrocento soldati Tedeschi con alcuni Francesi di gran valore, che fecero prove signalatissime in questa oppugnatione. Morirno nel primo assalto tre soli Tedeschi, et un Francese: ma di quelli di fuora restorno molti feriti et morti. Et perciò diffidando di poter espugnar la città per la molta virtù de’ difensori, sonate le trombe se retirorno dalla muraglia, et se ridussero co’l campo alla villa di Nogaredo, un miglio e meno discosta. Dove posti li alloggiamenti, et fatto tra loro consulto del modo da tenirsi per pigliar Cividale, promisero li Capitani di dar la terra tutta in preda alli soldati, se combatteranno con valore: Eccettuando però alcune case de Cittadini amici, et fautori de Venetiani.
Stetteron li Marcheschi senza far altro moto per tre giorni: poscia l’ottavo giorno entrati nel Campitello messero foco nelle case di esso borgo, che s’abbruggiò quasi tut-to; essendo arse dal foco più di cento et sessanta case (horribile spettacolo alli Bellunesi, che dalle mura vedevano ardere le proprie habitationi, nè potevano porgerli rimedio).
Il decimo giorno del detto mese ritornorno Venetiani ad appugnar la città, sendo molto di numero accresciuti, poi che si erano con loro uniti ottocento Cadorini, guidati da Cristoforo Palatino, Bernabò de Bernabovi, et Zuane da Piazza, con molti contadini del territorio Bellunese. Diedeto ad un’istesso tempo il generai assalto da tre parte cioè nel Campedello, al loco del Torrione, alla porta di Rudo, et alla torre del S. Marca il qual assalto continuò più di sei hore con gran stragge delli assalitori; che furono li morti condotti con li carri a sepellire a S. Stefano, a Santa Maria nuova, a Caverzano, et a Nogaredo.
Sendo nomasi morti doi soli delli assaliti: Furono tolte alli nemici vintido scalle, che havevano appoggiate alla muraglia, nè per la fretta havevano havu-to tempo di levarle: et furono con gran festa messe nel castello, dov’era alla guardia deputato Giovan Andrea Pontico Bellunese, huomo valoroso, et gratissimo alli Imperiali. Il dì seguente li soldati Venetiani havendo abbruggiato doi fuccine da spade, otto mollini, et altri edifici) ch’erano sopra Lane [Ardo], partirono verso Capo di ponte [Ponte nelle Alpi], dove si fermorno sino al decimo ottavo giorno del ditto mese.
Furono da Bellunesi mandati alcuni esploratori per saper quello, che trattavano li nemici: ma l’uno d’essi (che fu Cristoforo Maraga) scoperto et preso da Venetiani fu appeso per la gola, si come nella città fu fatto delle spie de nemici, che furono alli merli del Castello impiccati Vettor Scalfa da Feltro, Bartolomeo Polizani da Bribano, et Antonio da Trichesso Bellunesi. Havendo Venetiani saputo la gran difesa, che facevano Bellunesi, comandorno al General Mocenigo, che andasse con tutto l’essercito all’espugnation de Cividale [di Belluno]. Il qual partito da Trevigi mandò avanti Luigi Valaresso et Giovan Greco con trecento cavalli, il Tetrico con settecento Zaratini, Francesco Ron-donello con cento cavali, il Citolo Perugino della famiglia Bagliona con cinquecento fanti, Dionisio Busichio da Modone con cento Albanesi. Li quali tutti gionsero alla città il vigesimo d’Agosto: et unitisi con l’altro essercito si posero all’ordine per darli un ferocissimo assalto: subito che fosse comparso il Mocenigo; che venne all’hore vintitre del dì seguente con una gran moltitudine de soldati Trevigiani, Feltrini, da Sacile et Conegliano; tirati dalla speranza del sacco publicato.
Nè fermatosi ponto commandò, che fosse la città con trenta pezzi d’artegliaria verso il Campitello battuta: Et durò la batteria tutta la notte sin alla quarta Mora del giorno, che una gran parte delle mura conquassate rovinò in molti fuochi, et specialmente quelle della porta Dogliona con le torricelle, et Barbacani, ch’erano appresso ditta porta. Rote le mura et volendosi la fanteria nemica spingersi Manti per le rotture (non havendo quelli di dentro più speranza di potersi difendere) il Citolo da Perugia, acciò così bella et honorata città non si disertasse, li tratenne. Et così pacificamente la terra si hebbe.” (G. Piloni)
Belluno viene quindi salvata, dopo il cannoneggiamento del 1510, non per grazia dei Veneziani, ma perché il Capitano Citolo da Perugia, della famiglia Bagliona, pur essendo al soldo della Serenissima, si oppone con i suoi cinquecento fanti al pubblico saccheggio. Tornata la pace e ritiratisi i Tedeschi, Venezia si guarda bene dal ripristinare le mura e le fortezze dei Bellunesi, perché non ritiene conveniente l’operazione o forse, più verosimilmente, perché le ritiene una minaccia per la sicurezza dello Stato Veneto. Concludo auspicando che Belluno, città sonnolenta e annoiata, non cancelli le ultime tracce di una storia che in una epoca lontana la vide testimone di avvenimenti eccezionali, spesso con ruoli primari.
Gli Zattieri
Il 3 giugno 1492 a Belluno, gli Zattieri del Piave, ottennero il riconoscimento ufficiale dello Statuto della “Scuola dei Barcaioli” nella Chiesa di San Nicolò, loro Patrono. Due mesi dopo il 3 agosto 1492 il Doge Agostino Barbadico ratificava a Venezia il documento, apponendo la sua firma allo Statuto.
A Venezia c’era un gran bisogno di materie prime, in particolare di legname: piantati nei fondali della laguna ci sono interi boschi di larice che sorreggono gli edifici della città. La provenienza era principalmente dalle Dolomiti, dal Cadore e dal Bosco del Cansiglio, che forniva i fusti di faggio per la lavorazione dei remi, tanto da essere definito dal Proto esperto inviato da Venezia per la scelta delle piante migliori, un perfettissimo bosco da remi.
I tronchi venivano marchiati ed inviati verso il fiume Piave dove si costruiva la zattera sovrapponendo e legando i tronchi a strati con perni di legno, rami di salice e nocciolo. Si formava così un convoglio di 15/20 zattere trascinate da cavalli e aiutate dalla corrente sino a Venezia dove approdavano in Sacca della Misericordia alle Fondamente Nuove.
Le zattere che scendevano lungo il Piave, oltre ad essere cariche di legname e di merci varie, trasportavano spesso migranti in cerca di lavoro, desiderosi di raggiungere la Serenissima per la via più breve.
Nasce così la Corporazione degli Zattieri abili montanari nella conduzione delle zattere lungo il fiume, avezzi all’uso del legno e alla sua lavorazione, tanto che molti di loro si fermeranno a Venezia dove si affineranno in varie arti, trovando impiego come marangoni all’Arsenale di Stato, aprendo botteghe da remeri, falegnami, intagliatori, scultori, squerarioli per barche di uso corrente e gondole.
Tra queste arti a volte si creò un sodalizio tale che portò alla realizzazione di gondole ed imbarcazioni di fattura raffinatissima, destinate all’aristocrazia europea di quel tempo.
Una nota curiosa è che essendo di origine montanara, in particolare dalla Val Zoldana gli squeri da loro costruiti, rispecchiano caratteristiche estetiche che ricordano l’architettura rurale delle dolomiti Venete.
La loro attività si protrasse sino alla metà del sec. XIX come il mezzo più efficiente per il trasporto dal Cadore e Bellunese, rimanendo nella memoria storica per aver contribuito con il loro lavoro al formarsi di quella meraviglia di città che è Venezia.
Fluitazione e «zattieri»
Oggi pesanti autocarri portano via il legname dal Cadore alla pianura, una volta non era così!
I tronchi nel primo tratto venivano lasciati liberamente fluitare sulle acque del Piave. A Perarolo venivano arpionati, guidati e riuniti a gruppi e poi venivano consegnati ai legatori, uomini incaricati di formare le zattere, mentre quelli che le guidavano si chiamavano zattieri.
Lungo il percorso venivano fatte alcune soste, la prima era presso le varie segherie sparse lungo la riva del fiume. Qui le taglie venivano ridotte in tavole e trasformate in zattere speciali e venivano avviate ai magazzini dei proprietari o a Venezia. Le zattere scendevano fino a Codissago, di fronte a Longarone e poi passavano in consegna a un secondo gruppo di zattieri che le guidavano fino a Belluno, dove tutte le zattere fluitate per il Piave, dovevano fermarsi una nottata intera legate.
La mattina seguente le zattere si muovevano verso la laguna. Le guidavano forti alpigiani di Borgo Piave, il santo protettore degli zattieri, ma essi veneravano pure S.Barbara, che doveva salvarli dai temporali, dai fulmini e dalle piene improvvise. Gli zattieri avevano un costume caratteristico: era composto da un pesante giubbotto, cappello a larghe falde, fascia rossa alla cintura, calzoni al ginocchio, calze di lana grigia e grosse scarpe chiodate. Non tutti i bellunesi imparavano il mestiere di zattieri lungo il Piave, infatti alcuni giovani venivano mandati in Ungheria per apprendere le tecniche dai trasportatori di legname del Danubio.
Le zattere trasportavano molti materiali: legname, botti per il vino, frutta, animali da macello, ferro, pietra, formaggio, burro, carrozze e cavalli di qualche personaggio famoso che preferiva, per un certo tratto, la via maestra del fiume ai tragitti, non sempre sicuri, dei monti.
L’ultimo tratto di fluitazione procedeva lentamente, le zattere venivano messe una accanto all’altra e legate insieme (15 o 20 per volta) e trascinate lentamente dal deflusso dell’alta marea. A Venezia venivano attraccate alla riva che porta il loro nome, la Riva delle Zattere o alla Misericordia, dove le zattere venivano disfatte e il legname veniva trasportato nei magazzini per farlo asciugare e stagionare, per poter poi essere adoperato per tutti gli usi.
Questi legni hanno formato la maggior parte delle fondamenta della Basilica di S.Marco, delle case e dei palazzi di Venezia. La zattera è perciò legata strettamente alla storia di questa città e il suo uso non termina con la caduta della Serenissima nel 1797 e con il lento declino della potenza di Venezia. A porre la parola fine è stato il progresso!
Fino alla metà del 1800, prima che la ferrovia e altri mezzi venissero a farle concorrenza, le zattere sono state il principale mezzo di trasporto di merci e di uomini. L’ultimo viaggio è avvenuto nel 1927.
Come era fatta una «zattera»
La zattera era formata da 18/20 taglie affiancate e legate e si chiamava coppola. Era larga 5 metri e lunga 4.20 metri e presentava un notevole peso. Galleggiava a pieno carico di 40 tonnellate. La costruzione poteva essere realizzata in acqua o in terraferma., per costruirla, caricarla e poi guidarla si impegnavano 8 uomini ognuno con un compito preciso, il “capo zata” li comandava.
Per costruire una zattera non si adoperavano mai chiodi, i tronchi venivano legati tra loro con rami di salice e di nocciolo. Due remi venivano messi a poppa e altri due a prua, erano legati con lacci ai pestelli o con scalmi, servivano agli zattieri soprattutto come timoni.
Miniere e metallurgia nel Bacino del Piave
La gran parte delle metallizzazione presenti nel bacino montano del Piave si colloca lungo la linea Valsugana-Comelico e tocca Fiera di Primiera, Agordo e Forno di Zoldo.
La lavorazione dei metalli ha avuto nei secoli del basso medioevo e dell’età moderna un ruolo importante nell’economia delle società alpine. Differenziandosi o forse contrapponendosi a una fascia superiore dove hanno continuato a dominare l’allevamento, il pascolo, l’economia del fieno.
La differenza ha lasciato tracce tuttora visibili sulla struttura dell’insediamento: prevalgono infatti nella “fascia mineraria” abitati fitti, di una densità che rimane sconosciuta ai villaggi della fascia superiore.
Il periodo di maggiore vivacità in termini di apertura o potenziamento di imprese minerarie va dal 1480 al 1580.
Le principali aree di estrazioni di metalli furono:
- area bellunese-cadorina per il ferro,
- area della valle Imperina per il rame,
- area di Auronzo per il piombo.
I metalli della prima area già trasformati scendevano per la via del fiume fino a Treviso per poi essere distribuiti in altre direzioni, una parte veniva utilizzata però nell’area alpina per le attività locali.
Dalla seconda metà del 1500 c’è fu una crisi del ferro (a causa dell’alto costo e della concorrenza) e alla fine del 1600 i forni si ridussero a due che restarono fino alla metà del 1700.
Mentre declina la lavorazione del ferro decolla quella del rame. Una volta lavorato veniva utilizzato dalla repubblica di Venezia per la produzione di monete, per la fabbricazione del bronzo e quindi dei cannoni. Questa attività offriva molto lavoro alla popolazione. Nella zona dell’agordino la comunità mineraria durò nel tempo perché il lavoro veniva tramandato di padre in figlio.
Per quanto riguarda la terza area, decisamente la meno importante, l’estrazione del piombo, era destinata all’Arsenale di Venezia per la produzione militare (cannoni). Questa attività declina quasi completamente nella seconda metà del 1500, forse perché si sono esauriti gli strati più superficiali e più facilmente sfruttabili.
I cavatori di ghiaia
Quello dei cavatori di ghiaia era un lavoro estremamente duro e scarsamente remunerativo. Essi caricavano la ghiaia a badilate sui carri trainati dagli animali per poi commercializzarla nei cantieri edili o perché fosse utilizzata dalle municipalità per la manutenzione delle strade, che fino ad alcuni decenni fa erano in buona parte da asfaltare.
Dal 1960 in poi la ghiaia del Piave, come degli altri fiumi, diventò una sorta di “oro bianco” e al posto dei cavatori ci furono draghe e caterpillar che cominciarono ad essere una presenza costante nel Piave, a tal punto che alcuni imprenditori dell’escavazione, grazie alla compiacenza di numerosi funzionari statali portarono via al Demanio dello Stato 10 milioni di metri cubi di ghiaia, scavando fino a rendere pericolanti alcuni piloni dei ponti. Da quel momento l’estrazione della ghiaia dall’alveo del Piave venne vietata.
Dal 1977 in poi però si è scavato ancora, per motivi di regimazione idraulica e per prelevare materiale per opere urgenti di pubblica utilità (argini, ecc.), tali estrazioni devono essere concesse dagli organi del Ministero dei lavori pubblici e ricevere anche l’autorizzazione regionale. A tal proposito, le associazioni ambientaliste sostengono che, in ogni caso, viene autorizzata una delle cause del dissesto idrogeologico italiano.
L’estrazione e la commercializzazione della pietra
Un’altra attività tipica è stata quella dell’estrazione e commercializzazione della pietra nell’alta valle del Piave. Già praticata nell’epoca imperiale, poi nel Medioevo, sfruttata dalla Serenissima che impose addirittura la decima imposta sull’attività estrattiva, ebbe dei periodi di stasi produttiva tra il 1700 e il 1800 a causa dell’instabilità politica militare dopo la caduta della Repubblica di Venezia.
Nel 1866 (quando la provincia passò sotto il Regno d’Italia) esistevano 90 cave in attività, nelle quali lavoravano circa 300 persone e la metà della produzione annua preveniva dalle cave di Castellavazzo. Queste ultime conobbero l’ultima significativa fioritura nel ventennio tra le due guerre mondiali, negli anni ’40 erano ancori presenti nel centro abitato una ventina di botteghe per la lavorazione della pietra. Oggi vi è una sola cava ancora attiva, dove non sono più in uso attrezzi, le tecniche e le consuetudini tradizionali per l’estrazione manuale (con lo scalpellino).
La pietra estratta era calcarea rosso-grigia, rosso-bruna, bianco-rosso veniva impiegata per stipiti, scalini, pavimentazioni, caminetti, vasche di fontane; poi c’erano le pietre grezze da muro e le pietre utilizzate per affilare coltelli e utensili metallici. Per quanto riguarda la destinazione delle pietre grezze o lavorate, si può supporre che la gran parte di quella da fabbrica o per la selciatura di strade, o interni di edifici fosse rivolta per esigenze locali nell’alta valle del Piave, anche se è attestata una presenza nei depositi lagunari di marmi e pietre importate grezze.
Le pietre, come il resto della merce, veniva trasportata sulle zattere e/o sui carri in tutta la pianura padana e anche all’estero.
Le Spade dell’Ardo
L’Ardo è un torrente parecchio benvoluto. Perché è selvarego e potente, agile e spettacolare. Storicamente, l’Ardo è stato per Belluno – insieme al Piave, ma in maniera diversa – motore e garanzia per l’economia e l’indipendenza locali. Con l’ultima ansa, prima di buttarsi nel Piave, il torrente abbraccia il colle su cui si è sviluppato il capoluogo di Provincia. Nei secoli, lungo le rive di questo tratto di Ardo si è sviluppata la classe artigiana di Belluno: tessitori, armaioli, segherie, tintorie, fucine, mulini.
Oggi di quel passato produttivo non è rimasto molto: una spettacolare Regia stazione di troticoltura a Fisterre e alcune strutture la cui funzione non si è più in grado di riconoscere: qui un vecchio mulino, lì una conceria, una grossa segheria, un legnificio.
In zona San Francesco c’è una casina piccola, con una bella ruota di legno appoggiata al muro esterno. La ruota è stata aggiunta da poco: quella che c’era prima era andata distrutta, dopo anni di inattività. Qui un tempo scorreva l’acqua – dall’Ardo era stata derivata una roggia (un canale artificiale) che metteva in moto decine di opifici, giù fino al Piave. Il mulino da grano originario era diventato a metà Ottocento “casa ed annesso follo da panno ad acqua”, poi (nel 1875) “casa e sega da legname”, sempre ad acqua, infine officina meccanica.
L’ex officina Orzes è rimasta in attività fino agli anni Settanta. Nel frattempo la roggia è stata dismessa, i quartieri lungo l’Ardo hanno perso la loro funzione produttiva e le strutture sono invecchiate. L’ex officina Orzes dovrebbe diventare il museo delle spade di Belluno. Perché non tutti lo sanno, ma molti eserciti europei hanno combattuto con spade bellunesi marca Ferara e marca Lupa. Alla fine del XVI secolo, per dire, dei mercanti inglesi commissionarono ai fratelli Ferrara – che lavoravano presso le officine Barcelloni di Fisterre – 600 spade al mese per dieci anni.
Il che significa, 72mila spade: fatte proprio qui, lungo questo corso d’acqua che oggi è diventato luogo da passeggiate. Belluno si trovava in posizione ideale: dallo Zoldano e dall’alto Agordino scendeva il ferro delle miniere, i contadini del territorio producevano carbone di legna, la potenza selvarega dell’Ardo metteva in azione i macchinari e il Piave accompagnava in pianura il prodotto finito. Ecco cosa ne scrive lo storico cinquecentesco Giorgio Piloni: “Ha reso molto famosa, nelli tempi andati, questa cittade, la bontà esquisita delle spade et altre armi, che del continuo se ha in questo loco fabbricate; né cessa al presente de nobilitarla con gloria infinita delli suoi artefici; poi ché dalla Spagna, Inghilterra, Italia et Alemagna concorrono a garra li mercanti in questa cittade per tal causa”.
La parola “Fol” deriva dal verbo “follare”, una tecnica per infeltrire la lana. Anticamente il Fol risuonava dell’attività di industrie tessili, segherie, fabbri ferrai. Nel 15° e 16° secolo Belluno era famosa in tutta Europa per le sue spade, che venivano esportate persino a Londra. Ora di quella fiorente attività rimangono solo dei resti in completa rovina. Se c’è una spada che si identifica con la storia di Venezia, senza dubbio questa è la “schiavona”, essendo legata agli ultimi due secoli della Serenissima Comparve in fianco alle milizie d’oltremare chiamate “schiavoni”, da cui derivò il nome dell’arma.
Questi militi avevano una spada a fornimento ingabbiato, fornitura in legno con spire di spago coperta in cuoio, con pomello quasi sempre in bronzo a forma di “quadrotta” o “testa di gatto”, con un foro all’orecchio per il legaccio. La lama era molto larga, a punta e a doppio taglio, raramente a un filo solo, solcata da uno o più sgusci. Nata come spada da cavallo, continuò il suo servizio anche come arma da fianco della fanteria schiavona. Molte lame, all’inizio portavano il marchio del “lupo di Passau” perché provenivano da Solingen, ma poi tale marchio fu adottato anche dagli armaioli bellunesi, che si specializzarono in questa tipologia di arma. Belluno fu una fucina inesauribile di armi bianche.
Grazie alle miniere delle vallate feltrine, dell’agordino e dello zoldano, da dove si estraeva dell’ottimo ferro, erano nati un po’ ovunque insediamenti di abili artigiani che producevano dai semplici chiodi, ad elaborate serrature e chiavi. Lungo il corso del torrente Ardo, a nord est di Belluno, nella località di Busighel e Fisterre, a cominciare dal secolo XV, affermati spadari forgiavano lame per le milizia della Serenissima e per altri eserciti europei. Da notizie riportate da storici nel XVI secolo, si attesta che a Belluno venivano prodotte “fin 25 mille spade all’anno di ogni sorta” mentre da un documento del 1578 sappiamo che alcuni gentiluomini inglesi siglarono un contratto con gli armaioli bellunesi per la fornitura di ben 600 spade al mese per un periodo di dieci anni.
Celebri furono i maestri spadari come i fratelli Giorgio e Giuseppe Giorgiutti di Agordo, dei quali si possono ammirare due bellissimi spadoni a due mani nella sala d’armi di Palazzo Ducale, e Pietro da Formegan di cui si conserva a Palazzo Venezia a Roma, nella collezione Odescalchi, un imponente spadone a de mani.
Non parliamo poi del notissimo bellunese Andrea Ferara, tanto che il suo nome veniva contraffatto in Germania per i mercati inglesi. Vedasi, ad esempio la grafia errata di Andrea Ferara, incisa sulle lame delle spade di Higlanders, fornite agli Scozzesi dai Tedeschi per molti anni dopo la morte del grande Maestro.
Terremoto a Belluno il 29 Giugno 1873
Alle ore 04:29 del 29 giugno 1873 un terremoto di intensità compresa tra il nono e il decimo grado della scala Mercalli colpì l’alto Veneto; le provincie interessate dai danni furono quelle di Belluno, Treviso e Pordenone.
L’area più colpita dal sisma ed epicentro dello stesso fu localizzata a nord del lago di Santa Croce, 12 km ad est di Belluno. Il terremoto causò estese distruzioni nella conca d’Alpago; crolli diffusi si verificarono inoltre nel trevigiano e nelle località a sud dell’altopiano del Cansiglio; danni gravi subirono i fabbricati nel territorio del triangolo Belluno-Pordenone-Coneglia
Gli effetti del terremoto sulla città di Belluno
Gli effetti del sisma a Belluno furono pari a 8 gradi della scala Mercalli; dei 508 edifici della città, 8 crollarono, 110 furono demoliti, 139 erano da ristrutturare, 251 da riparare; 1 chiesa fu distrutta e 7 danneggiate. Nei sobborghi di Belluno dei 242 caseggiati totali, 2 furono demoliti, 21 erano da ristrutturare, i restanti 219 da riparare; nelle frazioni su 1.260 abitazioni, 15 furono distrutte, 66 demolite, 243 da ristrutturare, 669 da riparare; 4 chiese crollarono e 21 subirono danni. A Gorizia, Pordenone, Trieste, Udine, Verona e Vicenza si ebbero leggere lesioni nei muri e nei soffitti e caduta di fumaioli. L’area di risentimento fu molto estesa: la scossa fu sentita in tutto il nord Italia fino a Genova e verso sud fino alle Marche meridionali e all’Umbria; fu anche avvertita in molte località della Slovenia, dell’Austria, della Svizzera e della Baviera.
Il terremoto danneggiò gravemente molti edifici, alcuni dei quali subirono crolli, altri divennero pericolanti e i rimanenti necessitarono di riparazioni; furono gravemente danneggiati il Duomo, la chiesa di S.Pietro e quella delle Grazie . Venne costituita una Giunta permanente costituita da membri della Prefettura, del Comune, della Regia Procura e del Genio Civile; una commissione fu incaricata di effettuare perizie di tutti i fabbricati della città, dei sobborghi e delle frazioni.
Il 30 agosto venne reso noto il bilancio dei danni calcolato dalla commissione preposta: dei 508 edifici della città, 8 erano crollati, 110 demoliti o da demolire, 139 da ristrutturare, 251 da riparare; una chiesa era distrutta e 7 danneggiate. Su 4679 abitanti e 406 famiglie totali, i senzatetto furono 459 (105 famiglie); i morti furono 4 e i feriti 7.
Nei sobborghi, abitati da 1761 e 358 famiglie, non vi furono morti né feriti; di 242 caseggiati totali, 2 erano stati demoliti, 21 erano da ristrutturare, i restanti 219 da riparare. Nelle frazioni, abitate da 1470 famiglie per un totale di 10.037 persone, vi furono 4 morti e 19 feriti; 312 persone (52 famiglie) restarono senza tetto. Su 1260 abitazioni totali, 15 furono distrutte, 66 demolite o da demolirsi, 243 da ristrutturare, 669 da riparare; 4 chiese erano crollate e 21 avevano subito dei danni.
Bilancio complessivo del sisma
Il terremoto causò, complessivamente, 80 morti e 83 feriti. In molte località si raccolsero fondi a favore dei danneggiati, sia da parte di privati, sia per intervento di organismi statali ed ecclesiastici. Le autorità provinciali e locali si recarono nelle località danneggiate, inviarono soldati e carabinieri per rimuovere le macerie, montare tende, controllare l’ordine pubblico e le comunicazioni. I puntellamenti e le riparazioni ordinate subirono ritardi a causa della mancanza di legname; nel mese di luglio fu impiegato un distaccamento militare per l’abbattimento degli alberi messi a disposizione per la ricostruzione.
A Belluno venne costituita una Giunta permanente, costituita da membri della Prefettura, del Comune, della Regia Procura e del Genio Civile; una commissione fu incaricata di effettuare perizie di tutti i fabbricati della città, dei sobborghi e delle frazioni.
Il 30 agosto venne reso noto il bilancio dei danni calcolato dalla commissione preposta. In città, su 4.679 abitanti e 406 famiglie, i senzatetto furono 459 (105 famiglie); i morti furono 4 e i feriti 7. Nei sobborghi, abitati da 1.761 persone (358 famiglie), non vi furono morti né feriti. Nelle frazioni, abitate da 1.470 famiglie per un totale di 10.037 persone, vi furono 4 morti e 19 feriti; 312 persone (52 famiglie) restarono senza tetto.
Prima Guerra Mondiale
A causa del rientro a Belluno di circa seimila emigranti espulsi dai paesi che erano già in guerra, la situazione sociale della città divenne critica. Il forte rincaro degli alimentari aggravò il malcontento popolare e i mancati finanziamenti da parte del governo di Roma per delle opere pubbliche che avrebbero impiegato parte della popolazione provocarono uno sciopero generale contro la fame e la disoccupazione indetto il 5 marzo 1915. Durante lo sciopero vi furono dei tafferugli, repressi da oltre 4000 uomini in armi.
Il 24 maggio 1915 iniziò anche per l’Italia la prima guerra mondiale, che fu lo sfondo della città di Belluno per tre anni e mezzo. Inizialmente la città funse da centro della retrovia sul fronte italiano, e il Comitato di assistenza civile si impegnò nei sussidi a famiglie bisognose e soldati e curò il ricovero ed il mantenimento di minori, vedove, povere o ammalati. Ogni aiuto venne però incentrato sulla sola città, mentre le campagne vennero abbandonate a se stesse. La carità cittadina procurò scarpe e indumenti invernali per i soldati, mentre la raccolta popolare del soldino si premurava di raccogliere soldi per le truppe, a fianco alle sottoscrizioni mensili. La sfortuna colpì poi il territorio comunale: nell’agosto del 1917 un uragano si abbatté sulle campagne, distruggendo le colture e provocando come diretta conseguenza la carestia nel successivo inverno.
Il 1º settembre 1917 si svolse un duello aereo nel cielo di Belluno, dove morì, sotto gli occhi dell’atterrita e commossa popolazione, Arturo Dell’Oro, al quale venne successivamente dedicato l’aeroporto di Belluno. Pur di abbattere l’aereo nemico, Arturo si lanciò con il suo velivolo contro quello avversario, precipitando poi sulle rocce della Palazza, dove venne recuperato i giorni successivi e poi seppellito nel cimitero di Prade.
La disfatta di Caporetto, avvenuta il 24 ottobre 1917, consegnò il Friuli ed il Veneto Nord-Orientale sino al Piave alle forze degli imperi centrali. Belluno fu occupata dal 10 novembre: parte della Giunta Municipale e più di cinquemila cittadini abbienti abbandonarono la città nei giorni immediatamente successivi alla rotta, profughi in Pistoia e in altre zone del Nord Italia. Le truppe di occupazione, provate dalla lunga permanenza nelle linee di fuoco dei fronti europei occuparono anche il territorio e la città saccheggiandoli e abbandonandosi ad atti di ritorsione, crudeltà e violenza nei confronti della popolazione. L’atteggiamento delle autorità di occupazione fu caratterizzato da molteplici violazioni dei diritti delle genti, con spoliazioni e angherie ad opera dei comandi inferiori e delle truppe.
Il clima poi, grazie all’intervento del comandante di piazza Karl von Kantz, divenne più morbido nei confronti della popolazione in linea con il tentativo del nuovo imperatore Carlo I di arrivare al più presto alla pacificazione e alla conclusione della Guerra. Questo non portò tuttavia a riflessi positivi sulle condizioni di vita che peggiorarono progressivamente L’occupazione durò un anno esatto, l’an de la fan, anno della fame, significativa locuzione rimasta tristemente impressa nella memoria collettiva, e si concluse con la liberazione il primo novembre del 1918. La tremenda situzione del territorio bellunese e di tutti coloro che decisero di rimanervi è riportata in forma sintetica dalla documentazione prodotta dal Comune di Belluno alla Reale Commissione d’Inchiesta sulle Violazioni dei Diritti delle Genti commesse dal nemico, confluita poi in un volume redatto alcuni anni dopo la fine della guerra dalla giunta formata durante l’anno di occupazione.
Il 10 novembre entrarono in città le truppe austriache che, lacere e affamate, saccheggiarono la città. Perfino la copertura di rame dell’angelo sul campanile del Duomo venne asportata, creando un danno ancora attuale alla statua, cioè delle infiltrazioni di acqua.
Il nuovo governo cittadino austriaco assegnò ad ogni cittadino una carta di legittimazione per il riconoscimento personale. La chiusura di scuole e società culturali, oltre che l’accanimento dei soldati contro biblioteche e quadri, cercava di nascondere il passato per combattere l’idea di nazione italiana. Migliaia di contadini dovettero lavorare per gli invasori nei campi, ma a questa imposizione il popolo rispose mangiando di notte le patate coltivate. I comitati cittadini, i parroci, i maestri si adoperarono per la comunità, anche se al nuovo vescovo Giosuè Cattarossi venne impedita la visita pastorale. All’inizio di dicembre si insediò in città il comandante di distretto Karl von Kantz: egli si comportò in modo equilibrato, senza infierire sulla popolazione, che apprezzò il suo comando. In città vennero collocati dei servizi logistici degli invasori, come l’armeria o gli edifici per ospitare le truppe della retroguardia.
Il 1º febbraio 1918 l’imperatore d’Austria Carlo I si recò a Belluno per galvanizzare le truppe, ma trovo la città semideserta e sotto coprifuoco. Dopo la vittoria italiana nella battaglia del Piave del 23 maggio, gli invasori fuggirono dalla città la notte del 30 ottobre, a circa un anno di distanza dal loro insediamento. Il giorno successivo il generale Giuseppe Vaccari liberò la città.
Il bilancio per Belluno fu pesante: nell’intero arco della guerra 3228 persone morirono di fame e 1574 morirono di malattie, in particolare l’influenza spagnola. Enorme fu infine la ricchezza pubblica e privata che andò distrutta o perduta.
Seconda Guerra Mondiale
Dall’8 settembre (data dell’armistizio) al 13 settembre 1943 Belluno fu occupata da 80 Alpenjaeger, che non incontrarono alcun ostacolo. In seguito la città fu annessa al Terzo Reich, nell’Alpenvorland, ritrovandosi sotto la diretta giurisdizione tedesca con a capo il tirolese Franz Hofer. Alla fine del 1944 la città subì diversi bombardamenti, che interessarono soprattutto la stazione ferroviaria. Nel frattempo sulle montagne attorno al capoluogo si organizzava la resistenza partigiana, sostenuta sia dal clero che dalla popolazione che offrì viveri, ospitalità ed informazioni ai partigiani. Nell’inverno 1943-1944 i partigiani si prepararono all’azione, sperando nell’arrivo degli Alleati. Alcuni di questi si paracadutarono nel settembre del 1944: tra di loro fu molto caro ai bellunesi il maggiore Harold William Tillman, che conquistò anche delle cime himalayane nella sua vita. Il 15 giugno 1944 ben 73 partigiani furono liberati dal carcere di Baldenich in un’operazione condotta da Mariano Mandolesi. Si ebbero episodi altamente dolorosi per la Resistenza, come quello del 14 settembre 1944, del 1º maggio 1945, che costò la vita a 17 civili inermi a Fiammoi, quello del 10 marzo 1945, quando 10 partigiani furono impiccati agli alberi in località Bosco delle Castagne, e quello del 17 marzo 1945, quando 4 partigiani furono impiccati ad altrettanti lampioni di piazza Campitello (poi ribattezzata, in ricordo di questo evento, piazza dei Martiri); la sera della stessa giornata il vescovo Girolamo Bartolomeo Bortignon, incurante dei pericoli, si recò in piazza per baciare e benedire le salme dei partigiani.
Dal Dopoguerra al Duemila
Il 25 aprile 1947 fu assegnata a Belluno la Medaglia d’oro al valor militare per l’eroica resistenza partigiana che si sviluppò sulle montagne nei dintorni della città e portò alla liberazione di quest’ultima. Riguardo agli sport invernali, nel 1953, in località Nevegal, si aprì un nuovo impianto sciistico, mentre nel 1956 Cortina d’Ampezzo ospitò i VII Giochi olimpici invernali: fu proprio il 27 gennaio di quell’anno che il presidente della repubblica Giovanni Gronchi visitò Belluno.
Nel 1960 si iniziò la costruzione del nuovo Ospedale San Martino, il quale fu concluso a fasi alterne tra il 1967 e il 1988. Il 9 ottobre 1963 il disastro del Vajont distrusse Longarone e alcuni paesi limitrofi uccidendo quasi 2000 persone; l’ondata d’acqua riversatasi nel Piave causò gravi danni anche a Belluno, dove fu necessario un piano di ricostruzione del quartiere di Borgo Piave. Il 4 novembre 1966 un’alluvione colpì la città di Belluno e tutta la sua provincia, causando 24 morti, oltre a 15 000 alluvionati, 150 case e 17 ponti distrutti. La città si ritrovò con Borgo Piave allagata, gli acquedotti fuori uso così come i collegamenti ferroviari e telefonici.
Il 26 agosto 1978 Albino Luciani, originario di Canale d’Agordo, patriarca di Venezia e già sacerdote a Belluno, fu eletto papa con il nome di Giovanni Paolo I: il suo fu un pontificato brevissimo, poiché morì appena 33 giorni dopo la sua elezione. Nel 1979 l’onorevole Gianfranco Orsini presentò una proposta di legge per attribuire competenze autonome alla provincia di Belluno nell’ambito della Regione Veneto; la proposta fu rifiutata più volte. Nello stesso anno la Pallavolo Belluno raggiunse la Serie A. Nel 1985 il Nevegal e Belluno ospitarono le Universiadi della neve, per i quali la città si dotò di alcune infrastrutture come la piscina comunale e il palaghiaccio (ora Spes Arena) in località Lambioi.
Il 12 luglio 1993 fu istituito il Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi, che comprende i monti che si trovano sul confine settentrionale del comune. Nel 1998 fu inaugurato il parcheggio di Lambioi, il quale si dotò di scale mobili che arrivano direttamente in piazza Duomo. Nel 1999 Belluno venne scelta, da una giuria internazionale, come Città alpina dell’anno per il suo impegno nel mettere in atto la Convenzione delle Alpi.
Tra il 15 settembre 2007 e il 6 gennaio 2008 palazzo Crepadona ospitò la mostra Tiziano: l’ultimo atto, nella quale furono esposte numerose opere dell’artista cadorino Tiziano Vecellio. La mostra ebbe una risonanza internazionale, come dimostrano le 124.333 presenze registrate.
Nel 2009 le Dolomiti, compreso il monte Schiara che chiude a nord il territorio comunale, sono state inserite nel patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO. Sempre nello stesso anno, tra il 28 marzo e il 12 luglio, si è tenuta una mostra in onore di Andrea Brustolon, scultore e intagliatore bellunese, definito nel 1847 da Honoré de Balzac il Michelangelo del legno.
Onorificenze
Anche Belluno ha la sua medaglia! Il 16 marzo 1947, infatti, la città di è stata insignita della Medaglia d’oro al valor militare.
«Due volte invasa nel corso di venticinque anni, due volte la sua nobile ed intrepida gente si ergeva, decisa, le armi in pugno, a combattere l’odiato tedesco. Subito dopo l’armistizio del settembre 1943, i suoi figli si organizzavano in formazioni partigiane e gli 86 impiccati, i 277 fucilati, i 7 arsi vivi, gli 11 morti per sevizie, i 564 caduti in combattimento, assieme ai 301 feriti, ai 1667 deportati e ai 7000 internati, costituiscono il tributo di sangue e di eroismo dato alla lotta di liberazione. Nei giorni dell’insurrezione i suoi volontari della libertà si opponevano arditamente al X Corpo d’armata corazzato tedesco, forte di tre Divisioni, attestato al Ponte delle Alpi, gli precludevano ogni via di scampo e lo attaccavano di concerto con le sopraggiunte forze alleate, ottenendone la resa a discrezione. Dalle rive sacre del Piave, arrossato ancora una volta dall’italo sangue, i suoi partigiani, che per primi ebbero il privilegio d’imbracciare le armi contro l’invasore, marciano oggi alla testa delle formazioni dei Martiri e degli Eroi di tutte le lotte per l’Italia una e libera e ci additano la via del dovere e del sacrificio.» — settembre 1943 – aprile 1945
Piazze, Chiese e Palazzi
Piazza Santo Stefano
La piazza fu costruita sul soppresso cimitero dell’omonima chiesa posta su tutto il lato nord. Circondata da palazzi di epoca varia tra Quattrocento e Settecento, è impreziosita da una fontana del Cinquecento in pietra. Sul lato est svetta, sopra una colonna, la statua del leone di San Marco, simbolo del dominio di Venezia sulla città. Fino ad alcuni decenni fa vi era esposto il sarcofago romano rinvenuto nel Quattrocento, oggi spostato a Palazzo Crepadona. I palazzi che delimitano la piazza la rendono molto armonica: ad ovest gli edifici con porticato ed archi (precedenti al ‘400 ma vennero rifatti nel 1700) sono case semplici, costruite per la borghesia media che abitava il quartiere. Il borgo Santo Stefano, infatti, formato da convento e chiesa di S. Stefano, con la piazza ed i dintorni (via Roma, la parte nord di Piazza dei Martiri, fino a via Caffi), ebbe origine intorno al ‘400.
Nel 1480 con i Serviti, S. Stefano divenne centro religioso, per svilupparsi in seguito quando la città murata divenne insufficiente per le esigenze e le attività commerciali dei cittadini (analogamente a quanto accadde per Piazza dei Martiri). Esigenze ed attività che non erano certo dei nobili, impegnati coi loro possedimenti nel contado, bensì delle famiglie popolari, artigiani e commercianti, dediti a traffici vari. Questa nuova borghesia fu l’artefice dello sviluppo della parte nord della città. Infatti, alla metà del ‘500 , un atto notarile registra la presenza nel quartiere di sole due famiglie nobili, 14 di notai (letterati e mercanti), 12 di grossi mercanti e 12 di artigiani (calzolai, sarti, orefici, conciatori e falegnami).
Rimane traccia di questa nuova composizione sociale nelle strutture degli edifici, più funzionali, portici asimmetrici e pratici all’uso, facciate ampie che non tenevano più in considerazione le case dei vicini. A Borgo Santo Stefano e Borgo Pra si andarono sviluppando le attività legate alla lavorazione del ferro che resero fabbri e spadari bellunese famosi fino in Inghilterra ed in Scozia.
Borgo Piave si specializzò nel commercio e lavorazione del legno, a differenza di Borgo pra, più isolato, ma più vicino ai rifornimenti di materia prima in arrivo dall’Agordino e da Zoldo. Questa vita operosa che durerà fino al secolo XVII relativo benessere porterà anche al rinnovamento architettonico della cosiddetta edilizia minore (case di popolani, artigiani, commercianti).
Chiesa di Santo Stefano
Venne eretta tra il 1468 e il 1491 da maestri comacini per l’ordine dei Serviti, sull’area dove sorgeva una preesistente chiesa di cui rimane, murata sul fianco della navata sinistra, un’interessante epigrafe mortuaria in volgare datata 1349.
All’interno è di particolare interesse la cappella Cesa, eretta nel 1485, con la grande pala lignea di Matteo Cesa (1425-1495) e un ciclo di affreschi attribuito in passato a Jacopo da Montagnana (1440-1499). Alla sinistra del transetto si apre la Cappella dell’Addolorata, del 1737, con la statua di Giovan Battista Alchini (XVIII sec.), allievo del Brustolon, che tradisce però chiari influssi d’oltralpe. Alle pareti quadri di Cesare Vecellio (1521-1601), Nicolò de Stefani (1520-1599), Francesco Frigimelica (1570-1649), Antonio Lazzarini (1672-1732) ed altri.
La chiesa contiene due grandi angeli reggilampada ed un crocifisso di Andrea Brustolon (1662-1732), provenienti da altre chiese scomparse di Belluno.
Ugualmente, il portale gotico sul lato sud, con le statue dei santi protettori di Belluno, venne trasferito nel 1893 dalla soppressa chiesa di S. Maria dei Battuti. Il campanile presenta un grande orologio con il quadrante in pietra originale diviso in 24 ore, all’uso tedesco del XVI secolo.
Piazza dei Martiri o Piazza Campedel
Piazza dei Martiri (o Campedel), d’impostazione rinascimentale (sono comunque presenti edifici di epoche diverse), oggi punto d’incontro e salotto dei bellunesi.
Qui si svolgevano le attività pubbliche della città (esercitazioni, mercati, fiere, tornei, parate, raduni), fin dall’antico Campo di Marte di origine romana. Sebbene si sia chiamata per più di un secolo la piazza del Papa, o Piazza Gregorio XVI in onore del papa bellunese, ed oggi si chiami Piazza dei Martiri, in memoria dei quattro partigiani impiccati dai nazisti il 17 marzo 1945 sui lampioni al centro della piazza, per i bellunesi rimane de sempre Piazza Campedèl (Piazza Campitello perché indicava l’area dove si tenevano fiere e parate al di fuori delle mura che cingevano il centro della città romana e medievale).
L’angolo S-O ove un tempo sorgeva il castello permette una vista sulla valle del Piave verso Feltre.
Lungo il lato sud, al posto delle case, sorgevano le mura della città; all’estremità ovest v’era la torre del castello. Queste mura rimasero in piedi fino al secolo XVIII quando, dopo il riempimento del fossato, cominciarono ad essere demolite per la costruzione degli edifici. Fino al 1620, nessun passaggio nelle mura, che si trovava invece al centro (Porta Ussolo, da “ussiolo” cioè piccola porta, chiamata nel 1865 Porta Dante), oltre che ad est ( porta Dojona – unica via agibile da nord per tutto il Medioevo).
A differenza degli edifici lungo il lato sud della piazza, come visto posteriori al ‘700, quelli sul lato nord cominciarono ad esser costruiti a partire dal 1400, soprattutto nel 1600.
Dalla base della torre nord alla linea curva dei palazzi il raggio misura 92 metri: questo permetteva alle batterie di sparare in difesa senza recar danno alle cose, i bombardamenti sarebbero avvenuti su quello che oggi corrisponde al giardino ed al Liston.
La grande Fontana circolare, con la vasca del diametro di 16 metri, riporta 69 stemmi dei comuni che formano la provincia di Belluno.
La Chiesa di S. Rocco
La costruzione della chiesa di San Rocco venne decisa con un voto del 1530 in onore di San Rocco (la cui stata si trova al centro della facciata, l’unica che emerge, alta ed elegante) perché patrono e guaritore degli appestati, essendo stata la città colpita da tale flagello. L’edificio venne aperto successivamente al culto nel 1561, e poi venne affidata ai Padri Cappuccini dal 1605 al 1769, che abitarono pure il piccolo convento che si trovava sulla sinistra della chiesa, ed eressero una grande croce di larice nella piazza antistante, a ricordo della loro venuta e della loro predicazione.
Dopo il 1769, quando Venezia fece partire i Cappuccini, la chiesa venne affidata alla Congregazione di San Rocco, mentre nel 1806 la chiesa fu chiusa dai Napoleonici e passò così al Demanio. L’intero stabile della chiesa venne acquistato dalla contessa Elisabetta Agosti nel 1856; la stessa ordinò un restauro e fece riaprire la chiesa al culto.
Nel 1860 la chiesa fu affidata a don Antonio Sperti, che svolse una fervida opera di soccorso sociale avendo aperto nei locali dell’ex-Convento un orfanotrofio maschile e femminile.
Nel 1924 l’intero complesso fu affidato ai Padri Salesiani dal vescovo Giosuè Cattarossi, che ressero la chiesa fino al 1957. In quest’anno la chiesa e tutto il complesso furono luogo di un ultimo restauro e vennero assunti dalla Diocesi, che ne fece l’attuale Centro Giovanni XXIII.
Esterno
La chiesa ha un aspetto rinascimentale, ed è stata costruita usando la pietra di Castellavazzo. La facciata si può dividere orizzontalmente in tre parti. La parte inferiore ha tre archi a tutto sesto con due colonne centrali e pilastri laterali che sostengono volte a crociera quadrata. Sulla destra, dove insiste una delle volte, si trovava fino all’800 un’altra piccola chiesa, sede della sopra citata Congregazione, mentre sulla sinistra l’attuale edificio conserva il soffitto a volte gotiche dove si trovava la foresteria dei Cappuccini. La zona intermedia è abbellita da due finestre allungate, con interposta una nicchia tutta in pietra, che custodisce la statua di San Rocco, e una lapide murata, che ne riassume tutta la storia.
L’incisione è questa:
(LA) « DIVIO ROCHO / OB PESTEM ANNO MDXXX FUGATAM / VOTO CIVIUM ANNO MDLXI EXSTRUCTUM / A FISCO ANNO MDCCCVI SIBI ATTRIBUTUM / IN PROFANOS USUS ANNO MDCCCXVII CONVERSUM / A NOBILE MATRONA ANNO MDCCCLVI REDEMPTUM / ORPHANIS IN ADNEXAS AEDES COLLECTIS TRADITUM / ET IN NITOREM PRISTINUM RESTITUTUM / DIVO ROCHO / DOMENICA PRIMA OCTOBRIS ANNO MDCCCLX / ITERUM DEDICATUM » « Questa chiesa fu costruita in onore di San Rocco per voto emesso dai cittadini nel 1561 in seguito alla liberazione dalla peste del 1530; il Fisco l’incamerò nel 1806 e nel 1817 fu abidita ad usi profani. Riscattata da una nobil donna nel 1856 fu messa a disposizione degli orfani raccolti nei locali annessi e, restituita all’antico splendore, fu dedicata di nuovo a San Rocco nella prima domenica di ottobre del 1860 »
La zona superiore è a timpano di forma curvilinea, rinforzato da volute laterali barocche e da lesene legate al marcapiano superiore. L’insieme è leggermente sbilanciato dalle fasce verticali esterne, differenti sia negli archi che nelle finestre e nelle balaustre. Il pilastro laterale di sinistra porta lo stemma del Rettore veneto Giovanni Francesco Salomon, che portò a termine la chiesa, mentre quello di destra porta lo stemma della città di Belluno.
Interno
All’interno la chiesa possiede un’unica navata con volte a botte a profilo semicircolare. Se si guarda l’insieme architettonico vengono evidenziate le linee del Rinascimento, con toni pacati e alquanto pesanti, ma questi, nell’analisi particolare degli elementi, risultano forme nervose di compressione degli spazi. Gli altari mostrano manomissioni dovute alla sostituzione dei materiali nei restauri avvenuti.
L’abside, rialzata rispetto alla navata, è diviso in tre parti, di cui la centrale è maggiore rispetto alle altre due, e con arco a tre fornici a tutto sesto. Ogni parte ha un cielo a botte, con quello centrale più alto, con archi in pietra di Castellavazzo, la stessa usata per il marcapiano che corre su tutto il perimetro, compresi i fori per le finestre e gli altarini. Si può ipotizzare che lo stesso lavoro fosse stato riservato per l’antica balustra del coro, che ora è stata soppressa e della quale restano ai lati dell’abside dei rosoni in legno.
La navata a pareti speculari rispetto alle finestre e agli altarini sopra citati, scarsamente illuminata lateralmente, fino al luglio 2012 è stata rivestita da una fascia di marmo di colore grigio, poco conforme al resto della chiesa. Sulla spaziosissima cantoria che sovrasta il porticato di piazza dei Martiri vi è un organo della ditta Ruffatti.
Opere d’arte
Nella zona inferiore della parete esterna possiamo notare due dipinti, sui due lati dell’ingresso: uno è La Crocifissione con i santi Rocco e Sebastiano, l’altro la Vergine con i santi Cosma e Damiano. Le opere furono erroneamente attribuite ad Antonio da Tisoi, mentre invece sono di un ignoto pittore del Cinquecento, del quale comunque si sottolinea lo stile tutt’altro che volgare. Sopra la porta si può inoltre notare una lunetta in rame sbalzato dove è riprodotta l’iconografia di Belluno nel Cinquecento, a volo d’uccello.
Dopo essere entrati nella chiesa è subito visibile sulla sinistra l’opera di Gaspare Diziani l’Estasi di San Francesco datato 1727; il dipinto riproduce una versione su tela analoga di Sebastiano Ricci, anche se Diziani non dimentica, soprattutto nelle tinte fredde e verdastre, il suo primo maestro Antonio Lazzarini. Di fronte a questo si trova invece il dipinto San Girolamo Emiliani del pittore Luigi Speranza. Il grande tabernacolo dell’altare maggiore è un’opera dello sculture Valentino Panciera Besarel (1829-1902); che può essere posto cronologicamente nel periodo di formazione dell’artista.
Dietro l’altare centrale, anche se in pessima luce, c’è il dipinto l’Assunzione, probabilmente opera di Cesare Vecellio; sull’altare di sinistra si presenta una tela di Luigi Cima che rappresenta S.Giovanni Bosco di Luigi Cima (1860-1944), che è inoltre l’immagine ufficiale scelta dai Salesiani per la canonizzazione del santo, apostolo dei ragazzi; infine sull’altare di destra si trova un dipinto del XX secolo appartenente a Antonio Duodo. Fu restaurata nella seconda metà dell’ottocento.
All’esterno, sotto il portico, due affreschi datati 1564 con la Trinità e i S.S. Rocco e Sebastiano, sulla destra, e i S.S. Cosma e Damiano a sinistra.
Palazzo Fulcis De Bertoldi – l’interno
Il Museo civico di Belluno prese spunto dalla donazione avvenuta nel 1872 della pinacoteca del medico bellunese Antonio Giampiccoli, alla quale si aggiunsero la collezione di antichi bronzi, monete, medaglie, manoscritti e libri di interesse locale di Florio Miari; i materiali scientifici già conservati nel gabinetto provinciale naturalistico ed industriale istituito nel 1837; quelli donati dal geologo e naturalista Tomaso Antonio Catullo; la collezione dell’ornitologo Angelo Doglioni e quella del botanico Alessandro Francesco Sandi e molte altre donazioni.
A completare le testimonianze della storia cittadina e provinciale, il primo curatore Osvaldo Monti, regio ispettore provinciale ai monumenti e scavi, aggiunse i registri deliberazioni dell’antica Comunità di cividàl di Belluno, anch’essi ospitati nel secentesco palazzo del Collegio dei giuristi, sede museale aperta al pubblico nel 1876.
Oggi il Museo accoglie i visitatori con un’articolata esposizione organizzata per settori. Al piano terreno sono esposti importanti reperti archeologici afferenti l’intera Provincia, tra i quali di grande interesse risulta la sepoltura di un cacciatore rinvenuta in Val Cismon (BL) e databile alla fine del Paleolitico Superiore (12.000 anni fa) la cui fossa era ricoperta da pietre dipinte in ocra rossa. Si trovano testimonianze dell’età del ferro, costituite in buona parte da ritrovamenti provenienti dallo scavo ottocentesco di una necropoli nei pressi di Cavarzano (fibule, coltelli e oggetti in bronzo) e da scavi successivi effettuati in aree limitrofe.
Numerosi sono anche i reperti di età romana e dell’Alto Medioevo: da segnalare i due corredi tombali di epoca longobarda, rinvenuti rispettivamente a Mel e a Sospirolo. Il lapidario romano è ospitato nell’androne del vicino Auditorium Comunale: da segnalare la base in pietra calcarea del Cansiglio degli inizi del III secolo d.C. dedicata a Marco Carminio Pudente, che ricoprì importanti funzioni amministrative tra le quali anche quella di patrono del collegium dei dendrophori (addetti alla lavorazione e smercio del legname) e fabri, e la stele funeraria, del II secolo d.C., di Tito Sertorio Proculo che ebbe numerosi incarichi politici e religiosi nel municipium. Alquanto rilevante è poi il sarcofago di Flavio Ostilio e della moglie Domizia del III secolo d.C., visitabile nel cortile di Palazzo Crepadona, sede del Centro culturale cittadino.
Proseguendo nella descrizione della collezione museale esposta al piano superiore di Palazzo dei Giuristi, vi sono numerosi dipinti su tela e su tavola unitamente ad affreschi che illustrano in maniera esaustiva l’arte pittorica bellunese a partire dal XV fino al XX secolo. Di Jacopo da Montagnana (1440?-1499) e di Pomponio Amalteo (1505-1588) sono conservati numerosi frammenti di affreschi che un tempo decoravano la Caminata, sede dell’antica Comunità di Belluno interamente ricostruita e adattata a Tribunale provinciale tra il 1838 ed 1840.
Sono inoltre esposte alcune opere di Matteo Cesa (1425-1495), di Bartolomeo Montagna (1450 -1523), Palma il Giovane (1544-1628) e di Domenico Tintoretto (1560-1635). Di grande valore sono le tele settecentesche di Sebastiano Ricci (1659-1734), dipinte per casa Fulcis, come la Caduta di Fetonte; opere pittoriche e grafiche di Marco Ricci, dipinti di Gaspare e Antonio Diziani, di Antonio Lazzarini e di Giuseppe Zais. Del pittore e patriota bellunese Ippolito Caffi (1809-1866), tra i maggiori vedutisti dell’Ottocento italiano, vi sono la tela Venezia con la neve e la nota veduta di Belluno con il Monte Dolada. Il Concerto bandistico di Piazza Campitello di Alessandro Seffer (1832-1905) restituisce, invece, una suggestiva immagine della piazza principale di Belluno di fine ‘800.
Appartengono alle collezioni del Museo anche alcune sculture; tra queste di particolare pregio quelle del Michelangelo del legno Andrea Brustolon (1662-1732), quali il Crocefisso o la cornice con putti. Dello stesso artista sono conservati anche alcuni bozzetti in terracotta e un corpus di disegni preparatori. Di grande interesse infine alcune raccolte solo in parte esposte nelle sale, le tavolette votive di epoca compresa tra il XVIII e il XIX secolo, la collezione Zambelli-Perale di porcellane prodotte da manifatture italiane e europee dal sec. XVIII al XIX, la raccolta Prosdocimi-Bozzoli di gioielli d’oreficeria bellunese tra ‘800 e ‘900.
In sede distaccata si trova la sezione scientifica, raccolta formata dagli esemplari del gabinetto provinciale naturalistico ed industriale del 1837, delle donazioni Catullo, Doglioni e Sandi di cui sopra, nonché di quelli della collezione mineralogica-paleontologica e di vegetali di Torquato Taramelli ed di altri significativi reperti fossili afferenti il territorio bellunese.
Teatro Comunale
Nel “Dizionario storico-artistico-letterario bellunese” edito nel 1843, Florio Miari ci dà, pochi anni dopo la sua edificazione, un’esauriente descrizione del nuovo Teatro Sociale di Belluno, considerato la prima opera importante dell’architetto feltrino Giuseppe Segusini.
La costruzione del nuovo teatro fu determinata dalla demolizione del Palazzo del Consiglio dei Nobili, detto della “Caminada”, nella cui grande stanza del piano superiore, originariamente deposito delle armi cittadine, poi trasferite al Castello, si erano svolti, fin dal ‘500, tutti gli intrattenimenti teatrali.
La scomparsa di questo luogo deputato alle rappresentazioni, e l’evidente necessità di soddisfare la diffusa e crescente domanda di uno spazio sociale ad esse idoneo, accomunarono, sia l’organo pubblico della città che la “Società del Teatro”, composta dai proprietari dei palchetti del “Teatro della Caminada”, nella volontà di realizzare una struttura adeguata.
Il 12 giugno 1833, ebbero inizio i lavori nel luogo in cui sorgeva il vecchio “Fontico delle Biade” (il più importante magazzino della città, istituito già nel lontano 1426) e finalmente il 26 settembre 1835 il Teatro Sociale di Belluno fu inaugurato, con la messinscena di due opere serie, “la Norma” ed “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini.
Il manufatto – che, nel corso del tempo, ha subito diversi interventi di restauro interno compreso quello del 1949 anno in cui assunse l’attuale denominazione di Teatro Comunale di Belluno e anno in cui furono eliminati i quattro ordini di palchetti a favore delle due odierne gallerie – conserva ancor oggi all’esterno la sua veste pressoché originale.
Di stile neoclassico, la facciata presenta quattro poderose colonne corinzie; alla base è situata la comoda e breve gradinata affiancata da due blocchi in pietra sormontati da due leoni scolpiti da Pietro Zandomeneghi figlio, i quali secondo il Miari rappresentano la Commedia e l’Opera, mentre secondo il De Bortoli la Poesia e la Musica, e infatti l’uno tiene tra le zampe anteriori una maschera e l’altro una cetra. Sempre allo stesso scultore sono riferibili i bassorilievi dell’atrio raffiguranti Orfeo e Prometeo, secondo il Miari, Orfeo ed Euridice, secondo il De Bortoli.
Quale richiamo alla classicità dell’opera, quattro statue, recentemente attribuite a Giacomo Cassetti, e rappresentanti Adone, Onfale, Ercole e Diana, adornano l’attico superiore. La facciata e le pareti esterne presentano una serie di nicchie nelle quali sono collocate i busti in bronzo e in marmo che il Miari ritiene recuperati dal Palazzo del Consiglio dei Nobili.
Alla data della sua inaugurazione il Teatro Sociale risultava, all’interno, arricchito dal sipario eseguito da Sebastiano Santi, e dalle decorazioni per le scene e i palchetti di Francesco Bagnara. Queste ultime, recentemente restaurate, sono state riconsegnate al Teatro da alcune associazioni che hanno aderito alla campagna di adozione degli affreschi stessi, promossa nel 2008 dalla Fondazione Teatri delle Dolomiti, ente gestore del teatro.
Porta Dojona
Porta Dojona venne quasi totalmente distrutta nel 1510 (Guerra Cambraica) dai trenta cannoni del generale Mocenigo: «[…] una gran parte delle mura conquassate rovinò in molti luochi, et specialmente quelle della porta Dogliona con le torricelle, et Barbacani, ch’erano appresso ditta porta». (G. Piloni) Il Rettore Francesco Diedo nel 1553 la fece ricostruire in forme rinascimentali, mentre la parte interna alle mura conserva l’impronta originaria. Nel settecento appariva ancora con il fossato e i ponti che la dividevano dalla odierna Piazza Martiri un tempo borgo Campitello posto fuori le mura.
Storia
Un primo arco interno della porta, che si chiamava al tempo “di Foro” o “Mercato”, fu realizzato nel 1289, su disegno di Vecello da Cusighe, e fu poi restaurata più volte nel corso dei secoli. Questa parte, che guarda via Rialto, faceva parte del sistema difensivo murario della città, nei pressi del castello della Motta.
La seconda parte della porta, cioè quella che guarda piazza Vittorio Emanuele, fu eretta nel 1553 ed è chiaramente di imposizione rinascimentale, anche se il risultato complessivo della porta diventa piuttosto pesante, soprattutto per il fatto che viene soffocata dall’adiacente teatro comunale, di epoca neoclassica, dal quale è diviso da una sola scalinata. Questa parte venne costruita sul progetto di Nicolò Tagliapietra, commissionata dal rettore Francesco Diedo, il cui nome è scritto sul frontone al di sopra dell’arco. La porta fu inoltre chiamata porta Diedo, sempre in onore del rettore.
L’edificio un tempo era aperto sopra, come consuetudine medievale, ma nel 1609 venne coperto; da quella data venne cambiato il nome della porta, che divento porta Dojona, in onore di Giorgio Doglioni, vescovo titolare di Belle e coauditore di quello di Bressanone. Soltanto nel 1730 venne interrato il fossato che correva lungo la cinta muraria, pertanto ancora oggi dagli anziani della città la porta è chiamata porta de le kadene, per la presenza del ponte levatoio.
Struttura
Il carattere rinascimentale della porta che da su piazza Vittorio Emanuele è riconoscibile da alcuni elementi come le colonne poste su alti piedistalli, l’architrave lavorato a triglifi e dalle due cariatidi ai lati del Leone di San Marco. L’insieme assume un tono di severità per l’alternanza di luci e ombre, comprese le aperture della porta, più larga e alta la centrale, più strette le due laterali.
Sotto la copertura si nota subito la penombra dominante, poiché la luce proviene solo da tre oculi aperti in alto, visto che le porte lasciano filtrare ben poca luce a causa delle costruzioni intorno ad esse. Da ricordare che la porta funge inoltre da uscita di sicurezza del teatro comunale.
La parte che da su via Rialto rivela invece la sua primitiva origine, a causa dei battenti originali del 1289 ancora appesi alla porta, mentre la travatura in legno è certamente di origine recente. Si può notare inoltre un’ulteriore differenza tra le due porte, infatti le strutture murarie sono di due epoche diverse. Quella a nord è rinascimentale, mentre quella a sud è di origine medievale, costruita con grandi pietre marnacee squadrate, secondo i criteri difensivi dell’epoca. Infine, si può scorgere dietro il battente della porta sinistra una porticina sempre chiusa, residuo dell’aperta che doveva condurre al camminamento del castello, fino al torrione.
Iscrizioni e lapidi
Sulla porta sono presenti varie iscrizioni che ricordano la realizzazione dell’opera, i successivi restauri e lavori, o anche avvenimenti che riguardarono la città di Belluno. Riguardo alla porta di piazza Vittorio Emanuele, sopra l’ingresso di sinistra si trova questa iscrizione:
(LA) « PORTA FVIT DOJONA VETUS / SVBIECTA RVINAE: / NEC POTERAT MVLTIS / STARE DIEBVS OPVS: / FRANCISCVS DEIDVS RENOVANS / DECVS INTVLIT ALTVM. / NOMEN ET A TANTO / PRAESIDE PORTA REFERT / M.D.LIII. » (IT)
« La vecchia porta Dojona stava ormai cadendo in sfacelo e il fabbricato non poteva reggersi più per molto tempo. Francesco Diedo, ricostruendola, le ridiede alto decoro ed ora prende il nome dal rettore che fu così solerte. 1553. »
Mentre sull’ingresso di destra questa:
(LA) « MARMORA SVBLIMANT VRBEM / SIMVLACRA COLVMNAE / ET POSITVS MIRA / MAXIMVS ARTE LEO / HOS SVPERAT DIEDI VIRTVS / ET FAMA LABORES. / HAEC SVNT QVAE STATVIT / VIR MONVMENTA SVI / M.D.LIII. » (IT)
« Marmi, statue, colonne e il glorioso Leone collocati con tanta grazia, esaltano la città; il valore e la fama di Diedo però ne sono superiori: questi monumenti è stato lui ad innalzarli nel 1503 »
Nella zona di penombra tra le due porte, sulla parete destra, ci sono invece tre iscrizioni. Su quella di destra si trova questa scritta:
(LA)« JVLIO CONT.NO P.P.Q. / OB DILIGENTIAM / CVRAMQ. MAX. IN HVIVS / PONTIS ARCVS / CONSTRVCTIONE / ADHIBITAM BELL. / MEMO M. DC. VI » (IT)
« Al rettore e al prefetto Giulio Contarini per la diligenza e la massima cura posta nella costruzione dell’arco di questo ponte, i Bellunesi dedicarono nel 1606 »
su quella centrale invece:
(LA) « FEDERICVS CORNELIVS P.P.Q. / BELLVNI SOLERTIA MAX. ADMIRA / BILIS VIAM JVLIAM NORICAMQ. / REPENTINA LIGNEI ARCVS RVINA / INVIAS SUBLITO PONTE MIRO / OPE CELERITER PERFECTO VIAS / REDDIDIT. TANTVMQ. APVD / POSTEROS BONAE MERVIT FAMAE / QVANTVM CVRATISSIMAE ADHIBVIT / DILIGENTIAE. ANNO D.NI / NOT.O CAVASS.O M. DC. XXII DAEP.O » (IT)
« Federico Corner, rettore e prefetto di Belluno, con mirabile rapidità, fece riaprire al traffico la strada di Alemagna, interrotta per l’improvviso crollo del ponte di legno, costruendone subito un
altro ancora di legno con grande perizia. Si meritò così presso i posteri tanta fama quanta era stata la diligenza in tale opera. Nell’anno del Signore 1622, il notaio Cavassico a ciò deputato »
Infine su quella di sinistra, sotto lo stemma del vescovo Giulio Berlendis:
(LA) « JVLIVS BERLENDIVS EPISCOPVS / EXCITATO MARMOREO PALATII PROSPECTV / AD EXCITANDVM ITIDEM IANI PRVDENTIAE STVDIVM / JANVAM HANC JAM ANTE MOX RETRO RESPICIENT. / HIC POSVIT / ANNO MDCLXXIX » (IT)
« Il vescovo Giulio Berlendis, eretta la facciata del palazzo in marmo, per promuovere nello stesso tempo lo studio della prudenza di Giano ha fatto collocare qui la porta che prima dava sul retro, nel 1679 »
Quest’ultima lapide si riferisce ai lavori di ammodernamento del palazzo dei Vescovi-Conti e della sede dei Giuristi, cioè dell’attuale Museo civico di Belluno, e lo spostamento di Porta Dojona. In corrispondenza delle due altri lapidi invece si possono notare due scudi nobiliari della famiglia Doglioni, con celate e pennacchi di guerra. Ancora più in alto ci sono altri tre stemmi, poco visibili a causa dell’oscurità dell’ambiente e della polvere accumolatasi, comunque si sa che uno dei tre è lo stemma del vescovo Pietro Bembo.
La lapide più preziosa si trova però sopra l’apertura sud, ancora meno visibile a causa dell’effetto di controluce. Essa reca una grande croce a due stemmi, uno di Belluno e uno di Adalgero di Villalta a ricordo della data di fondazione della porta, scritta in numeri romani. Sulla destra di questa invece si nota la scritta, sempre in latino, che indica il costruttore della porta, mentre sulla sinistra la scritta è di difficile comprensione perché la lapide è scheggiata.
Questa è sormontata da uno stemma degli Sciparioni. Infine sulla destra si trova ora una grande lapide che celebra la vittoria nella prima guerra mondiale.
Piazza Mercato
Piazza del Mercato, detta anche Piazza delle Erbe, è una delle piazze di maggior interesse a Belluno. L’area occupa lo spazio del foro al centro dell’originario insediamento del castrum romano, lo stanziamento umano più antico di cui si ha testimonianza a Belluno.
Oltre ad essere luogo d’affari, nel Rinascimento ricopri una particolare importanza sociale: le classi popolari, gli artigiani e i letterati fecero fronte comune contro i Nobili di sangue per conquistare il loro ruolo anche a livello politico. Presenta portici su tutti e quattro i lati dove si ergono i palazzi più in vista della città tra cui, maggiormente in evidenza, il Monte di Pietà.
Iniziati i lavori nel 1501 su impulso della predicazione del servita frate Elia da Brescia, fu concluso nel 1531. Sul fronte troviamo, oltre all’emblema originale del Monte, cioè una “Pietà” in pietra a tutto tondo e al leone veneziano solo in parte demolito dai giacobini nel 1797, diversi stemmi di podestà veneti che governarono tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600. Rimasto intatto il portale con liste di ferro e parte degli affreschi interni. Nella chiesetta al piano terra notevoli le opere di A. Brustolon e L. Ridolfi.
Al centro della piazza la più antica fontana pubblica della città, dove troneggiava la statua di San Lucano ora nel Museo Civico. Gli altri due bellissimi palazzi gotico-rinascimentali sono: la casa Miari del XVI secolo con il bellissimo portico affrescato e il Palazzo della famiglia Costantini del 1550, sopra la loggia dei ghibellini, detta anche “loggia di Foro”. Come spazio dedicato alle pubbliche riunioni, esisteva già nel 1347 poi ristrutturato nel 1471.
La piazzetta, il cui perimetro occupa lo spazio del foro aperto al centro romano, si chiamava anticamente Piazza di Foro; nel gergo, ma ancora oggi, Piazza delle erbe, per la presenza del mercatino permanete di frutta e verdura, secondo la consuetudine delle piazze venete. L’impianto attuale risale al Cinquecento, e costituisce il cuore del Centro Storico antico. In rapporto alle altre piazze, se Piazza Martiri è il centro moderno degli incontri e degli affari.
Piazza Mercato è l’antico centro medioevale degli affari, che si svolgono ancora, benché ridotti sotto i portici e nelle botteghe adiacenti; piazza del Duomo fu ed è il centro politico e religioso; Piazza S. Stefano è il centro popolare, religioso e devozionale; piazza de’ Battuti centro religioso e caritativo. Purtroppo queste due ultime piazze hanno perduto la finalità storica e, specie seconda, è in completa decadenza. Oltre a luogo d’affari, straripanti nella vicina borgata della Motta, Piazza Mercato svolse nel tempo una precisa funzione sociale, poiché qui allestirono il loro quartier generale i ceti popolari che nel sec. XVI si contrapposero ai Nobili, da secoli reggenti per le altre classi la cosa pubblica del Comune di Belluno e del distretto.
Le nuove generazioni di artigiani, notai, letterati contrapposero alla nobiltà del sangue la loro nobiltà del denaro, pretendendo di avere nella vita politica quella voce e quell’attenzione che ormai avevano conquistato negli affari e nella società. Essi concretizzarono la loro azione di conquista del potere pubblico proprio nell’episodio storico della costruzione del Monte di Pietà. Furono essi a sostenerla e a finanziarla per primi come loro opera sociale, forzando la mano al consiglio dei Nobili che successivamente diede il proprio parere positivo.
Monte di Pietà (1501- 1926)
Istituito a Belluno nel 1501 per la gestione del prestito del denaro, funzione in precendenza svolta esclusivamente da ebrei sulla base di appositi contratti stipulati con la Comunità di cividàl di Belluno, il Monte di Pietà di Belluno esercitò anche il credito e la tesoreria per l’Ente, così da rivestire un ruolo dirilievo in campo assistenziale dagli esordi del secolo XVI agli anni del secondo doguerra, segnatamente al 1949, momento in cuii fu assorbito nelle funzioni dalla Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno.
Il fondo inventariato da Silvia Miscellaneo nel 2000, è stato depositato dalla Cariverona Banca S.p.A. nel giugno 2002 presso l’Archivio storico comunale in forza dellla rilevanza documentaria per la storia cittadina. Il palazzo del Monte di Pietà, che secondo quanto scritto nell’atto costitutivo della Fondazione, viene messo a disposizione dalla Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona come sede della Fondazione, è un edificio carico di storia.
L’esistenza del palazzo è senz’altro documentata dal 1500, ma il tipo di affreschi e le scritte venute alla luce durante i lavori di restauro indicano che, con ogni probabilità, lo stabile e i dipinti che ancor oggi si possono ammirare sono precedenti almeno di un secolo. Alla nascita della Fondazione lo stabile era in via di ristrutturazione e sono stati necessari alcuni anni e l’opera di valenti artigiani per renderlo utilizzabile, pur con le limitazioni d’uso che le antiche strutture impongono.
Il Monte Pietà di Belluno è collocato sul lato sinistro della piazzetta del mercato di Belluno, dietro la fontana con la statua di San Lucano, protettore di Belluno e antico santo della Val Serpentina, come veniva chiamata la Valle della Piave. Comprende, a piano terra una chiesetta, sopra la quale sono le sale più importanti della Fondazione, e sulla sinistra la casa Arlotti, (ora sede dell’Istituto storico della Resistenza), con una serie di stanze, stanzette, scale e scalette che in tempi diversi hanno svolto funzioni di accesso e di disbrigo per il Monte.
Alcuni usano la denominazione “Monte dei Pegni”, ma essa non trova riscontro nei documenti. L’edificio, o meglio gli edifici in questione, furono sede del Monte di Pietà, con funzione di prestito su pegno, ma non si trova usata la dicitura “Monte dei Pegni”, che è evidentemente una sintesi recente. I Monti di Pietà nascono nell’Italia centro-settentrionale a partire dalla seconda metà del 1400, per esigenze di assistenza, sotto l’influsso della predicazione francescana e per contrastare l’usura degli ebrei.
L’istituto del Monte di Pietà di Belluno viene fondato nel dicembre 1502, con sede iniziale presso la Confraternita di S. Maria dei Battuti, quindi in sede apposita, a partire dal 1531, in Piazza del Mercato. Come si può leggere nella Cronica Montis Pietatis esistevano già dei locali usati per l’incanto dei pegni nella piazza, centro delle attività economiche della città, ma le fonti archivistiche non specificano quali fossero. È verosimile che si trattasse della stessa casa sopra la quale fu poi edificato l’attuale palazzo rinascimentale, ossia la casa del nobiluomo ser Geronimo Sommariva, che l’avrebbe donata, assieme alla bottega nel 1511 al Sancto Monte, secondo la testimonianza del notaio Pier Paolo Delaito.
Tutto ciò è scritto nel retro della Tavola ex-Voto Delaito del Cristo in Pietà di Giovanni Da Mel, ora al museo civico di Belluno. E’ certo comunque che il 10 aprile 1531 i governatori del Monte, ossia le persone elette dai popolari della città, deliberarono di dotare quest’importante istituzione di una sede adeguata al prestigio che essa aveva nel frattempo acquisito soprattutto fra il popolo, con l’adaptar e fabricar la casa in do solari forti in volti cum le sue porte e finestre serade e con l’erezione di una torre provvista di campana che annunciasse l’incanto dei pegni. E in quell’anno si registrò un aumento del prestito da lire cinque a lire sette.
La costruzione iniziale in due piani fu affidata al mastro Bartolomeo Munaro della Val de Lugan e corrispondeva all’attuale campata centrale, dove era la chiesa della Beata Vergine della Salute, edificata soltanto nel 1628, nella cui sacrestia, prima dei restauri, era visibile una scala di collegamento con il piano superiore: la facciata sopra il volto doveva essere della stessa altezza della casa contigua degli eredi di ser Jacopo Arloto (a sinistra per chi guarda) e munita di un leone marciano andante con lo stemma dei Gradenigo e quello del Monte (una Pietà, per l’appunto).
La famiglia Arloto è una famiglia di artigiani, come la maggior parte di quelle residenti nella piazza del Mercato, poi divenuta nobile. Un ser Jacopo Arlotti è nominato come esattore unico per popolari e contadini il 6 gennaio 1517.
Nel Dizionario di Francesco Alpago troviamo registrato “La prima menzione che facciasi degl’Arlotti ne Libri del Consiglio è quella di Gasparo Arlotti, che prende l’impresa di noleggiare alquanti letti alla famiglia de’ Rettori; e vedesi confermato questo contratto colli obblighi ed emolumenti l’anno 1404 ultimo ottobre, Libro C (del Consiglio Maggiore). Detto Gasparo trovasi eletto per homines rotuli de Noxadanis Capitaneus S. Hippoliti, 1414, 31 Gennaro, Libro D. Marc’Antonio Arlotto facendo fondamento sulla elezione di detto Gasparo in capitanio di S. Boldo, e presumendo, che da ciò dovesse dedursi prova di Nobiltà presentò supplica al Consiglio per esservi ammesso. Fu ballottata, e ottenne affermative 1, negative 39. 1529, 7 marzo, Libro N”.
La torre-campanile di due passi di altezza sopra la casa dei Sommariva e sei di larghezza sarà poi abbattuta per l’opposizione dei nobili bellunesi. Sappiamo infatti dal Piloni che all’erezione di una torre era connessa di solito la richiesta di istituire un fondaco delle biade gestito dai popolari. Ciò avrebbe costituito una minaccia nei confronti del potere dei nobili. Il Monte di Pietà rappresentò di fatto un punto di riferimento per i popolari, un sostegno per i poveri, che se da una parte erano taglieggiati degli ebrei ai quali, non essendo cristiani, era permesso il commercio del denaro, dall’altra venivano pesantemente spremuti dalle richieste dai pignoramenti e, anche se non del tutto leciti, dai prestiti ad usura praticati sia da nobili che da benestanti dell’epoca.
Il governo del Monte fu significativamente affidato quindi ai popolari fin dall’inizio. Per costituirlo, dietro la spinta e le predicazioni del frate Elia da Brescia, i castaldi della varie confraternite cittadine riuniti nella Scuola di Santa Maria dei Battuti furono esortati a contribuire finanziariamente e le fraglie si riunirono per le offerte che raggiunsero la somma di 612 lire e 8 soldi. Altre somme si aggiunsero sotto forma di elemosine dei fedeli e da parte dei capitaniati di Agordo e Zoldo. Le due campate laterali del palazzo furono acquisite successivamente.
Nel 1575 il Monte acquistò la casa contigua al fabbricato e negli anni 1590-1595 furono registrati i lavori della nuova fabrica, ossia della campata sinistra dove ora vi è l’ingresso con le scale di accesso. Risalgono al 1604 gli ultimi interventi sulla campata di destra, dopo l’acquisizione della casa di Alessandro Vitulis o de Vedel, preesistente, nella cui sala al primo piano, più interna e con porta ben salda, furono trasportati i magazzini dei pegni, per ragioni di sicurezza. Nel 1627 venne richiesto al governo di Venezia di poter costruire un altare: l’intervento è documentato anche da due disegni inviati alla Serenissima l’anno successivo che evidenziano l’esistenza della scala interna di accesso ai piani, ora murata.
Nel 1873 fu comprata la casa degli eredi Arlotto, che si trova sull’estrema sinistra e furono fatti dei lavori per annetterne i locali al Monte. Come già detto, la casa è sicuramente precedente al 1531, sia perché viene nominata in documenti precedenti, sia per le fasce di grottesche che ne percorrono le pareti al piano nobile, simili per stile a quelle del palazzo quattrocentesco di Santa Maria dei Battuti. Anche la casa dei de Vedel dovrebbe essere più antica: nella mansarda, attuale sala carte geografiche della Fondazione, sopra la bella sala con bifora, di stile gotico veneziano, è stata portata alla luce una data incisa sulle pareti: 1447 (dove forse i caratteri 8 z che seguono stanno per 8 zugno). Vi sono inoltre nel salone corrispondente, con volti gotici, al primo piano, resti di fugature policrome di impronta quattrocentesca (o di fine Trecento), poi ricoperte in parte da un’apertura a finestra, probabilmente esistenti nella stessa casa De Vedel.
I De Vedèl sono famiglia nobile, il cui cartiglio è inciso nella colonnina della bifora al secondo piano. Nella Miscellanea Delaito del 1546, “Descrittione delli Cittadini di Cividal di Belun d’ogni sorte excetto li infimi fatta l’anno 1546 et primo”, si nomina in “La Contrada de Merchà il nobile Andrea de Vedel del fu magistro Antonio dotor, qual fò fiol d’un caleger, come etiam quelli del Cimador descessi da un che cimava pani“.
La famiglia e la casa De Vedel erano senz’altro preesistenti alla costruzione del Monte. Poche sono però le fonti archivistiche in grado di documentare la storia complessa del palazzo, la cui facciata rinascimentale, sicuramente rifatta, presenta tre finestroni quadrati con inferriate sporgenti a fitta maglia, dal carattere monumentale, in contrasto con l’elegante bifora gotica dell’altana. La difformità degli stili è d’altronde prova che la costruzione avvenne in fasi successive, come testimonia la Cronica,
” […] Et primo chel ditto Bartholomeo sia obligado. adaptar et fabricar essa casa in la quale habilmente si possa conservar si li pegni come altre robe de esso Santo Monte … et 1° chel se abbia adptar e fabricar la ditta casa in do solari forti in volti cum le sue porte e finestre serade cum le sue prie zentil […]” senza un progetto unitario, con rifacimenti ed aggiunte, e accorpamento di quelli che forse inizialmente si presentavano come singoli edifici giustapposti, alti e stretti (di fine Trecento, inizio Quattrocento), come già si è potuto verificare nel caso del Palazzo Crepadoni o di analoghi palazzi bellunesi e feltrini.
Anche la presenza di riquadri di muro a malta pressata di fattura quattrocentesca, così come l’affresco arcaico, forse di fine Trecento, di Madonna col Bambino nel secondo ammezzato (in frammenti), la porta in legno e ferro che separa le due sale al primo piano, fanno risalire a periodi anteriori al 1531 parti dell’edificio, il cui sporto completamente in legno è tra i pochi rimasti a Belluno.
La facciata sotto il portico è ricca di ornamenti in pietra di Castellavazzo, lavorata a bocciarda, soprattutto per dare evidenza alla chiesa del Monte. La parte centrale è composta dal portale su cui appoggiano un arco a tutto sesto posto a lunetta e da due finestre rettangolari protette da inferriate a maglia sinusoidale.
Nell’interno della chiesa, visibile dalla scalinata del Monte, tramite una finestra con inferriata, sotto la quale è situato non a caso un inginocchiatoio in legno, l’altare maggiore è in parte di stile cinquecentesco in pietra finemente lavorata (forse era situato in precedenza all’interno del Monte e corrisponde all’altare di cui parla la Cronica, dato che la chiesa è successiva al 1628).
L’altare laterale è invece del 1600, in legno scolpito dal Brustolon (1662-1732), con statue biaccate dello stesso scultore, così come gli angioletti che si abbracciano al centro del timpano. Un tempo l’altare, restaurato di recente dalla Cassa di Risparmio, con il complesso della chiesetta, conteneva la pala con la Pietà della tavola Delaito, ora al Museo Civico di Belluno: attualmente esso contiene una tela del XX sec. raffigurante S. Rita da Cascia in preghiera. E’ del Brustolon anche la pala lignea dell’altare centrale contenente la tela di Agostino Ridolfi (1646-1727), raffigurante la Madonna.
Sull’austera facciata, trovano posto accanto al Leone di San Marco e allo stemma di pietra del Monte di Pietà (una Pietà, per l’appunto, con la Madonna che sostiene il Cristo morto), diversi stemmi dei rettori veneti o di nobili famiglie bellunesi; percorrendo la facciata da sinistra a destra e dall’alto in basso, gli stemmi infissi sono quelli di: Francesco Zen (1608), Costantino Zorzi (1618), stemma del Monte sulla cornice sinistra del leone andante della Serenissima, Giovanni Dolfin (1611), Pietro Correr (1615), Francesco Boldù (1681), Pietro Lion (1609-11); in alto, sul limite, stemma della famiglia Pagani a segnare il confine del Monte di Pietà.
Sulla riga in basso: Vincenzo Cappello (1597), Agostino da Mula (1594-95), Angelo Contarini (1613), Benedetto Giustinian (1600-02), Marco Giustinian (1603-05), Federico Corner (1621), Girolamo Vallaresso (1669-70), Francesco Duodo (1619-20).
La Chiesa di Santa Maria dei Battuti
Storia e cronologia
L’immagine e l’importanza della chiesa che emerge dalle fonti storiche è molto diversa dalla consistenza materiale dell’edificio come è giunto ai nostri giorni. Dedicata anch’essa a Santa Maria dei Battuti, è concordemente fatta risalire alla prima metà del xiv secolo, ed è probabile che la sua fondazione sia coeva o di pochi anni successiva all’istituzione della Confraternita, fondata nel 1310. Il primo documento certo che ne comprova l’esistenza è datato 1332, e da questo si apprende che il vescovo Gorgia de Lusa (vescovo tra il 1328 ed il 1349) esenta la chiesa da ogni vincolo di servitù, lasciando alla decisione dei Battuti la scelta del sacerdote e il modo di officiarla. Viene citata ancora in un documento del 1362 come Santa Maria della Misericordia o dei Battuti, in occasione di un lascito testamentario di cui la chiesa era in parte beneficiaria.
È certo quindi che sia esistita una chiesa trecentesca primitiva, probabilmente molto semplice e di dimensioni più contenute, ma è nel contempo assodato che questa chiesa primitiva sia stata quasi completamente riedificata nella prima metà del xv secolo. In questo concordano sia le fonti storiche che le evidenze fisiche e le testimonianze materiali riscontrabili sull’attuale edificio.
La nuova edificazione cominciò dal campanile, che le fonti storiche attribuiscono al 1415, sulla base di una iscrizione così datata che un tempo vi esisteva, ma che oggi non è più riscontrabilei. Questo dato trova conferma dall’osservazione e analisi della tessitura muraria dell’attuale prospetto su fronte strada: procedendo dal basso verso l’alto, la muratura del campanile in pietrame a vista presenta, sul lato lungo la strada, una tessitura che nella parte basamentale è separata da quella della chiesa, di cui si vedono le grosse pietre d’angolo dell’originaria angolata libera, mentre, nella parte superiore, la muratura tra chiesa e campanile è tessuta in maniera continua, senza segni di ripresa o discontinuità, se non nella parte terminale.
Si può quindi affermare che la parte inferiore del campanile è in un rapporto di successione stratigrafica rispetto alla parte basamentale della facciata della chiesa, mentre nella parte superiore è in rapporto di contemporaneità costruttiva, fino alla parte terminale in cui risulta invece anteriore al muro della chiesa. In altre parole si evince che la parte inferiore, iniziale, della costruzione del campanile quattrocentesco comportò il mantenimento parziale della parte inferiore della facciata della chiesa trecentesca, poiché fu impostato in aderenza alla chiesa stessa, di cui fu lasciata integra le muratura; procedendo la costruzione verso l’alto, la muratura del campanile venne a interessare anche quella della facciata della chiesa, poiché la sopraelevazione di quest’ultima fu eseguita durante la costruzione del campanile; a partire da una certa quota tale operazione procedette in maniera autonoma, mentre la facciata fu completata nella parte terminale in un tempo ancora successivo.
Oltre ai rapporti stratigrafici tra chiesa e campanile, che consentono una lettura delle fasi costruttive, l’attento esame della tessitura muraria della facciata lascia intuire anche il profilo della chiesa primitiva: a capanna, più basso dell’attuale, con una piccola finestra a occhio di cui si vede il tamponamento sotto l’occhio attuale, probabilmente sormontata da un campaniletto a vela.
Dopo il campanile, la costruzione dovette continuare nel presbiterio, che nelle fonti viene attribuito al 1429, sulla base di una iscrizione in pietra un tempo esistente e ricordata dal Miariu, e che forse coincide con l’iscrizione, visibile solo in parte, perché parzialmente murata, su uno dei due mensoloni esistenti sul muro piedritto dell’arco trionfale. Questa datazione trova conferma in un importante documento che contiene “provisioni” per il completamento e l’adeguamento delle mura cittadine, pubblicato da Orietta Ceiner nel 2006, datato io maggio 1428, che fa luce sulla avvenuta costruzione dell’abside sopra le antiche mura, con funzioni anche di difesa.
Dalla lettura di questo documento, che la studiosa ci propone trascritto fedelmente lasciandone l’interpretazione a futuri studi, si evince quanto segue: “[…] i costruttori della chiesa si erano proposti di realizzare pro ornamento ecclesie un’abside quadrata (cubam quadram) facendovi costruire in ea unam altarem magnum. Sentiti vari capomastri (plures magístros muraríos) verificarono che non sarebbe stato possibile realizzare la cuba con le misure necessarie, se non uscendo di almeno due passi dal muro urbico (extra muros magnum et parvum civitatis predicte saltem passus duos) […] ; chiesero quindi di poter costruire detta cuba in modo che potesse servire sia alla chiesa che alla difesa e fortificazione della mura cittadine.
La richiesta, ritenuta giusta e onesta, fu esaudita, anche perché il muro che si chiedeva di riedificare era debole e quasi in rovina, e la nuova cuba poteva servire anche per la difesa del tratto di mura compreso tra porta Rudo e San Pietro; le condizioni poste furono che il tratto di muro che veniva sbrecciato fosse poi riattato a spese della Confraternita, con precise prescrizioni tecniche di misure e materiali; essa doveva servire anche da torre di guardia: come una torre, doveva essere coperta di lastre di pietra, cosicché il personale di guardia potesse in “ea comode habitare”, doveva permettere la percorribilità delle mura, e per tale scopo dovevano essere inseriti nella muratura dei tre lati dei “modiglioni in pietran, pendentes extra murum per duos pedes“, sui quali si sarebbero realizzati dei ballatoi il legno (unam ghirlandam lignaminis per quam possit ambulare), a cui si accedeva mediante due scale in pietra poste ai lati della cuba.
Dalla vivida immagine del fervore costruttivo quattrocentesco che emerge da questo documento, si deduce che la costruzione dell’abside avvenne in ampliamento della chiesa trecentesca, rispetto alla quale la zona del presbiterio doveva essere più grande e con un altare più importante. La barriera fisica, costituita dalle presenza delle mura, fu brillantemente superata assegnando alla nuova abside la funzione di torre difensiva all’interno del sistema delle mura, in una rara mediazione e ricomposizione degli interessi fra le due parti, la Confraternita da un lato, e la Comunità di Cividal di Belluno dall’altro.
Questo clima di collaborazione trova un’ulteriore conferma nel fatto che la Confraternita domanda e ottiene di poter utilizzare nella costruzione della chiesa due colonne provenienti dalle mura di Belluno presso Porta Rugo, notizia questa che documenta una fase contemporanea di lavori di ristrutturazione delle mura cittadine. La copertura venne certamente completata nel 1433, data iscritta sulle mensole in pietra di imposta dell’originaria copertura, e che presumibilmente segna anche il completamento dei lavori alla chiesa.
In occasione, quindi, della costruzione del campanile, tutta la chiesa fu rimaneggiata e sostanzialmente riedificata, poiché, con la sopraelevazione della facciata e quindi l’innalzamento della copertura, essa venne ingrandita come volumetria, e con l’ampliamento della zona presbiteriale verso est ebbe anche una nuova definizione planimetrica. Non sappiamo se questi lavori siano l’esito di una politica celebrativa e siano stati finalizzati a dare maggiore visibilità alla cresciuta importanza della Confraternita; più probabilmente, potrebbero essere conseguenti a gravi danni riportati dalla chiesa trecentesca per il terribile terremoto della metà del Trecento, che nel Bellunese lasciò integri ben pochi edifici.
Troppo spesso dimenticato, questo evento condizionò l’attività edilizia della zona, che si fermò negli anni successivi, per riprendersi solo dopo vari decenni. Per comprendere l’eccezionalità e la disastrosità di questo terremoto è utile leggere la descrizione che ne fa il Piloni: “[…] distruzione di un gran numero di edifici, morti, epidemia di peste che si diffuse nel resto d’Italia, decimazione della popolazione che venne ridotta a un terzo, sono le conseguenze più significative riportate […]“.
La chiesa, se pure fondata nel Trecento, nella configurazione che conosciamo è in realtà quattrocentesca e di semplice impostazione tardo-gotica nella sua definizione architettonica. Ad aula unica con abside quadrata sporgente, illuminata da semplici monofore ancora esistenti sulla facciata sud, era comunque una chiesa grandiosa per dimensioni, pari o forse più grande della vicina San Pietro, e seconda solo alla Cattedrale. Suggellava l’importanza della chiesa il ricco e caratteristico portale lapideo in origine presente in facciata, sormontato da una lunetta scolpita, che rappresenta uno dei più significativi esempi della cultura figurativa bellunese del xv secolo in ambito scultoreo.
Il portale, dal 1892 trasferito nella facciata laterale della chiesa di Santo Stefano, è costituito da stipiti e architrave decorati con motivi a torciglione e floreali; sopra l’architrave una lunetta a sagoma lobata, anch’essa contornata da fasce decorate a motivi floreali, racchiude il prezioso bassorilievo della Madonna dei Battuti che protegge i confratelli scappati con il proprio manto.
Si tratta del motivo della Mater Misericordiae, che ripropone il modello aulico dell’esemplare scolpito da Giovanni e Bartolomeo Buon per la Scuola di Santa Maria dei Battuti di Venezia, ora al Victoria and Albert Museum di Londra. Come nel portale veneziano lo scultore di Belluno dispone la Vergine Misericordiosa al centro, mentre apre il manto ad accogliere i confratelli genuflessi che le si dispongono ai lati con un intenzionale allineamento in doppia fila, tale da rendere la profondità spaziale. Due guglie, poste simmetricamente ai lati del gruppo centrale, seguono lo sviluppo verticale dell’opera e terminano con piccole figure simboliche.
Sulla sommità Dio Padre benedicente. Quattro figure di santi contornano e completano esternamente la lunetta: in basso a sinistra, sant’Antonio Abate; sopra, san Gioatà compatrono di Belluno; in basso a destra, un santo guerriero, di dubbia interpretazione; sopra, san Sebastiano. Delle statue di contorno non è molto chiaro il significato complessivo, se non in riferimento alla committenza, mentre il tema della Mater Misericordiae è assolutamente centrale nella composizione, e chiaro nel suo significato, ribadito anche da una scritta dedicatoria alla Madonna presente sull’architrave.
L’impaginazione stilistica fa presupporre che lo scultore bellunese conoscesse direttamente gli atelier di lapicidi attivi a Venezia, sebbene il volto ieratico della Vergine e le pieghe del manto scolpite con taglio netto rivelino un ductus lievemente più greve e rigido. Si può supporre quindi che l’esecuzione sia dovuta a maestranze locali, se pure aggiornate sulle esperienze veneziane, in grado di eseguire altre realizzazioni scultoree, come dimostrano alcuni manufatti coevi in città, meno preziosi ma con analogo tipo di modellato.
La pietra utilizzata, un calcare locale detto “bianco di Valdart”, molto compatto, durevole e di facile lavorabilità, ha sicuramente facilitato l’adozione dei temi scultorei decorativi tipici del repertorio gotico, come il fogliame e il motivo del torciglione. Sulla base di analogie stilistiche con l’ancona in pietra, già dell’altar maggiore, della chiesa di Santa Augusta a Serravalle, dove sul retro della cuspide apicale è inciso il nome dell’artefice Giovanni Antonio (opus Ioanniis Antoni), insieme alla data 1476, è stata avanzata l’ipotesi che si tratti dello stesso maestro lapicida, attivo nel bellunese e identificato con Giovanni Antonio da Mercador, che nel 1463 stipula un contratto per la fattura dell’altare di San Bernardino in San Pietro di Belluno.
Confronti con il tabernacolo del Santuario dei Santi Vittore e Corona ad Anzù di Feltre e con quello della chiesa dell’Addolorata di Mel, oltre che con altri manufatti vittoriesi, hanno fatto ipotizzare che si tratti di opere dello stesso autore, anche se non vi sono prove documentarie di questa attribuzione. Pur in assenza di riscontri, colpisce in particolare la somiglianza tra il portale di Santa Maria dei Battuti e il tabernacolo di Anzù, sia per l’impostazione architettonica dell’insieme, con le guglie laterali e la lunetta a sagoma spezzata, sia per un significativo dettaglio come il modellato delle quattro grandi foglie collocate sull’estradosso della stessa, che presentano lo stesso tipo di movimento.
A parte questi esempi con parti scultoree di una certa rilevanza, per gli elementi decorativi di base si tratta di un repertorio diffuso in tutto l’ambito tardo-gotico, localmente rappresentato da esempi vicini, come il piccolo portale sul muro di cinta lungo via Santa Maria dei Battuti, di accesso alle pertinenze della sede della Confraternita, forse della stessa bottega e contemporaneo, che presenta il consueto motivo del torciglione e capitelli a foglie di analogo modellato, mentre fogliame con modellato dello stesso tipo è presente anche nei capitelli della loggia dei Ghibellini, nei capitelli del chiostro gotico nel complesso del seminario, nelle bifore gotiche di palazzi, come la sede del Comune in piazza Duomo e quello in via Mezzaterra al civico 90-92, tutti manufatti quattrocenteschi.
Il portale racchiudeva una bella porta lignea intagliata decorata con un semplice scomparto a quadrati ciascuno dei quali contenente un rosone gotico, attribuita a intagliatore veneto della prima metà del xv secolo. Venne donata al Museo Civico di Belluno nel 1891 e costituisce l’esemplare più integro e ben conservato di manufatto ligneo quattrocentesco. Con il restauro sono state recuperate tracce di policromia rosso bruno sul fondo dei trafori, ed è emersa l’ottima qualità dell’intaglio.
Per una precisa datazione del portale non esistono dati certi. Trattandosi di elemento di completamento della struttura architettonica, è molto probabile che sia stato realizzato dopo la copertura della chiesa, datata 1433. Si può ipotizzare che sia stato realizzato contemporaneamente al già citato attiguo portale minore, ancora esistente sul muro di collegamento tra l’ex chiesa e l’archivio, che doveva dare accesso al porticato un tempo esistente, e che presenta sull’architrave un’iscrizione in maiuscolo gotico con la data 1441.
Ma vi è anche un’altra considerazione che conferma questa datazione, basata sulla presenza dello stemma della famiglia Crepadoni visibile sul basamento della statua di sant’Antonio. Giuseppe Crepadoni (nato nel 1577) in un suo scritto del 1615 così precisa: A quella porta ragguardevole del tempio di S. Maria dei Battuti, là sotto un S. Antonio in piedi, c’è un’arma senza colori, e però può parere quella di Ca’ Tron a Rettor di Belluno l’anno 1408, ma quella è l’arma di casa nostra, ivi scolpita, perché Antonio Crepadoni, padre del mio attavo paterno, intrò, credo alla spesa di quella porta.
Attraverso un calcolo delle generazioni, considerati i gradi di parentela costituiti dalla sequenza pater-avus-proavus-abavu.s
Porta Rugo
Porta Rugo, che della impostazione originaria conserva gli archi a sesto acuto, mentre la facciata esterna viene rifatta nel 1622 togliendovi le insegne dei Visconti datate all’ultimo decennio del ‘300. Nell’ultimo rifacimento assume chiaramente l’impronta secentesca che ancora la caratterizza. Nella ricostruzione del Doglioni, Porta Rugo appare attorniata da torri, la più importante delle quali era quella del S. Marco; la zona era chiamata «delle Torreselle», denominazione conservata attualmente nella via Torricelle.
Storico accesso meridionale alla città, dall’antico porto fluviale di Borgo Piave. Agli inizi dell’800 venne abbattuta buona parte delle mura cittadine e con esse la grande torre sulla sinistra e le altre fortificazioni laterali che difendevano la porta. Del complesso originale, attraverso cui entrarono il primo rettore veneziano, Antonio Moro, nel 1404, e l’imperatore Massimiliano d’Asburgo nel 1509, rimane l’arco acuto interno tardo duecentesco, con ancora la nicchia entro cui le cronache raccontano che rimase fino al XVII secolo lo stemma affrescato dei Visconti, signori di Belluno tra il 1383 e il 1404.
La sistemazione della facciata (in cotto e non in pietra, cosa inusuale per Belluno) segue il progetto commissionato nel 1622 dal rettore veneto Federico Corner all’architetto Lorenzo d’Alchini. La nicchia centrale tra i due stemmi contiene ancora la base con le zampe del leone di S. Marco abbattuto dai rivoluzionari Giacobini nel maggio del 1797.
L’ultimo restauro è del 1902.
Casa del Capitano
Casa Nossadani (o Nosadani), vicino alla Porta Rugo, è nota anche come Casa del Capitano di Giustizia perché ospitava l’ufficiale di guardia alla succitata porta, che costituiva l’accesso meridionale alla città. Il Palazzo, del XIV secolo, è uno dei più antichi di Belluno. Al pianoterra è costituito da un porticato sorretto da quattro colonne, mentre ai piani superiori si aprono tre file di finestre. Le più interessanti sono quelle al secondo piano, che mostrano ancora la forma trilobata originale.
Il terzo e ultimo piano è stato aggiunto in seguito, modificando radicalmente l’aspetto dell’edificio. La facciata è coperta di affreschi, tornati alla luce in seguito a un restauro completato nel 2014; il restauro è stato operato da un’immobiliare che ha acquistato il Palazzo, da tempo abbandonato, e ne ha convertito l’interno in unità abitative.
Questo palazzo è uno dei pochi esemplari di architettura tardomedievale rimanenti in città e, in quanto tale, un elemento importante della storia di Belluno.
Piazza Duomo
Davanti al campanile dirigendo lo sguardo verso sud si può ammirare il Palazzo Piloni ora sede della Provincia, costruito nel 1550 dalla famiglia Piloni (da Odorico padre dello storico Giorgio, che scrisse la precisa e ben documentata storia di Belluno dalle origini fino alla fine del cinquecento circa).
L’edificio è impostato su un ampio portale di pietra, sormontato da un largo poggiolo in pietra e ferro che delimita la facciata del piano terra costituita da bugne in pietra. Sull’ampio balcone si aprono tre porte, divise da lesene che terminano con volute ioniche (probabilmente un’aggiunta seicentesca). Nella sala dell’ingresso centrale ci sono affreschi, molto belli, attribuibili a Cesare Vecellio, che rappresentano le quattro stagioni.
Entrando nella cappella della chiesa di S.Maria delle Grazie (Battistero) si trova al centro un fonte battesimale in marmo sormontato da un coperchio ligneo, attorno al quale sono scolpite le teste degli apostoli; queste, notevoli per la loro forza plastica, sono dello scultore Angelo Majer (1865 – 1913). A coronamento della cappella si trova un bellissimo S. Giovanni Battista dorato del Brustolon.
Nella piazza sono presenti anche i palazzi del Comune, della Prefettura e dell’Auditorium ed il Duomo.
Il Duomo
La storia della Cattedrale di San Martino affonda le sue origini nel 548 d.C. quando il Vescovo della città ricevette l’ordine di realizzare un luogo di culto per San Martino. Dopo la sua iniziale impostazione, il Duomo di Belluno fu più volte trasformato, tanto da stravolgere completamente l’assetto principale. Addirittura nelle immediate vicinanze è stato ritrovato e fotografato un antico cimitero. Nel XVI secolo la Cattedrale subì degli importanti lavori, come l’aggiunta di un coro, innalzato su un torrione rinforzato sulle vecchie mure della città. Ancora oggi, costeggiando il centro storico del capoluogo è possibile ammirare l’imponenza di questa antica e alta parete.
Le finestre sono in stile gotico-veneziano e sebbene le poche testimonianze ed i molti rimaneggiamenti, sono soprattutto le finestre il segno più tangibile del gotico veneziano e le più antiche di queste sono sicuramente le due grandi aperture che si trovano ai lati dell’ingresso centrale del Duomo di Belluno. Esse sono formate da una doppia bifora con decorazioni a linee curve che si intrecciano con trafori per formare eleganti motivi geometrici, caratteristici dell’arte gotica d’oltralpe. Nella parte alta della bifora si trovano gli stessi motivi decorativi della finestra della Chiesa di Regensburg in Germania.
Il Rosone del Duomo di Belluno domina la facciata principale e presenta le stesse caratteristiche rifiniture della finestra gotica. Probabilmente quest’opera è stata realizzata nel XVI secolo. I due rosoni laterali che affiancano quello principale sono stati sicuramente aperti e rifiniti in epoca successiva, probabilmente tra il seicento e settecento.
Il portale principale è di impostazione rinascimentale, anche ulteriori modifiche ne hanno mutato l’aspetto iniziale. I due ingressi laterali invece mantengono la classica impostazione seicentesca con timpano spezzato. Mentre la facciata della Cattedrale presenta oggi elementi di epoca diversa: divisa in tre diverse parti, la parte centrale termina con un timpano aggettante e il fregio della trabeazione è sostenuto da mensole in mattoni a lunghezze alterne.
La Chiesa di San Martino è detta anche Basilica Minore in seguito alla visita, nell’agosto del 1979 di Papa Giovanni Paolo II. Il nuovo pontefice fu informato della presenza, nel Duomo di Belluno, di una preziosissima reliquia: 1 spina della corona di Gesù. Da allora la Cattedrale assunse il titolo di Basilica Minore. La reliquia è ancora oggi conservata nel reliquiario della Basilica ed al pubblico in occasione di importanti eventi cittadini. E’ esposto comunque sempre un quadro con una sua fotografia all’interno della Chiesa.
Il Campanile della Cattedrale è forse l’unico edificio realmente barocco della città. La popolazione ha sempre evitato inutili decorazioni, prediligendo il grande impatto paesaggistico dato dalla presenza del fiume Piave e delle Dolomiti sullo sfondo. Il progetto del Campanile venne firmato personalmente da Filippo Juvarra,architetto che impreziosì Torino con monumentali opere come la Basilica di Superga e la Reggia di Venaria. L’opera venne ultimata nel 1743 anche se l’architetto non venne mai a Belluno, ma rielaborò il progetto iniziale del Duomo di Torino.
Furono le maestranze locali ad intervenire in maniera perfetta quando si dovevano apportare delle modifiche pratiche al progetto di Juvarra. Alcuni elementi, come la maggiore altezza della cella campanaria, la guglia a forma di cipolla, resero questo progetto una delle opere più equilibrate di tutta l’architettura barocca. La base è formata da uno zoccolo a forma di tronco di piramide con un bugnato di pietre di diversa lunghezza. Il motivo a forma di riquadro a cornice aumenta il senso ascensionale del progetto. L’attico è circondato alla base da un balcone e da una serie di colonne intervallate da robusti pilastri; su questo si inserisce la guglia a forma di cipolla con copertura in rame. Al culmine il prezioso angelo.
Palazzo dei Rettori
Fu sede per quasi quattrocento anni dei rettori veneti che governavano Belluno e il suo territorio. Su un preesistente e più arretrato edificio fortificato realizzato a partire dal 1409 (e completamente bruciato nel 1802) venne aggiunta nel 1491 dal rettore veneto Maffeo Tiepolo sul lato ovest una prima loggia lombardesca a due piani, poggiante su tre archi.
Nel 1496 fu adottato un progetto di ampliamento disegnato dal veneziano Giovanni Candi (l’autore del “bovolo” di palazzo Contarini a Venezia), più volte interrotto fino alla crisi seguita alla guerra di Cambray. Venne infine completato nel 1536 durante il rettorato di Girolamo Rimondi. Tra il 1536 e il 1547 venne innalzata la torretta dell’orologio, progettato dal fiesolano Valerio da San Vittore. Sulla facciata, stemmi e busti di rettori veneti dei secoli XV-XVII. All’interno numerosi locali, nonostante i radicali restauri resisi più volte necessari in seguito ai terremoti degli ultimi due secoli, hanno mantenuto la fisionomia originaria, in particolare il salone centrale del secondo piano e la vicina saletta, con il soffitto alla sansovina.
È oggi sede della Prefettura.
Palazzo dei Vescovi, ora Auditorium
Anticamente palazzo fortificato sede dei vescovi-conti, secondo la tradizione venne eretto (o più probabilmente ampliato e rafforzato) alla fine del XII secolo dal vescovo Gerardo de Taccoli, morto nel 1196 combattendo in battaglia contro i Trevigiani.
La torre civica regge la campana al cui suono, dal 1403, si riuniva il Maggior Consiglio cittadino. Una torre gemella, sull’angolo verso il Duomo, venne abbattuta nel 1516 per allargare la piazza di fronte al Duomo ma anticamente doveva essercene una terza, centrale, come mostra chiaramente l’antico sigillo vescovile che riproduceva proprio questo edificio. Più volte rimaneggiato, il portale ed alcuni elementi dei finestroni superiori risalgono alla ristrutturazione attuata dal vescovo Giulio Berlendis nel XVII secolo.
Gravemente danneggiato dal terremoto del 1873, subì un totale rimaneggiamento interno curato dall’ing. Giorgio Pagani-Cesa, cui si sommarono gli interventi sulla facciata seguiti al nuovo sisma del 1936.
Già sede del Tribunale, ora è adibito ad Auditorium comunale. L’edificio si affaccia verso la piazza e la fontana quattrocentesca. La fisionomia attuale è quella uscita dai restauri seguiti al terribile terremoto del 1873 e dagli interventi di manutenzione straordinaria decisi dal Comune qualche tempo fa (per destinarlo da tribunale ad Auditorium), a completamento di quelli eseguiti nel 1950.In pratica si sono conservati gli abbellimenti ai fori ed al portale decisi dai vescovi Giulio Berlendis e Alcaini, nel secolo XVII e XVIII, eliminando le bugne a fasce del piano terra.
Molto elegante la scritta che gira sui fregi dalla parte superiore dell’architrave, tagliata dallo stemma in pietra del vescovo Giulio Berlendis. Per leggerla bisogna spostarsi, girando quasi a intorno alla porta; essa dice: IVLI/VS/BERLENDI/VS/PA/
Del primitivo Palazzo dei Vescovi, edificato per la prima volta con tre torri nel 1190 da Gerardo de’ Taccoli, non resta nulla, se non i possenti muri dell’atrio rettangolare che regge la torre centrale. Attraversando il vano della porte per entrare nelle salette adiacenti si può notare lo spessore. Non si sa quando la torre centrale sia stata demolita; lo fu certamente perché minacciando di franare, avrebbe distrutto tutto l’edificio, dato che era la più alta (si confronti con quella che resta a sx). Quella laterale sinistra fu demolita nel 1516 per dare spazio all’avampiazza che si affaccia su piazza Duomo. Fu uno dei primi interventi in sintonia con i lavori di ammodernamento di tutti gli edifici principali, operato nel corso del sec. XVI, per dare un volto nuovo alla piazza principale della città. Successivamente fu capovolto l’orientamento del Duomo, si eliminò il cimitero, demolita la chiesa-battistero di S. Giovanni Battista (1555) verso il palazzo dei Vescovi appunto (sostituita come battistero da quella di S. Martino, oggi S. Maria delle Grazie), ecc.
Le vecchie foto, scattate appena dopo il terremoto del 1873 mostrano ancora una sopraelevazione, come una specie di altare, sul lato dx. Il torrione sul lato sinistro, acquistato dal Consiglio dei Nobili nel 1409, divenendo torre civica, La torre civica regge la campana al cui suono, dal 1403, si riuniva il Maggior Consiglio cittadino, fu abbellito da Andrea Palladio nel 1579; minacciò di crollare completamente nel terremoto del 1873 e fu successivamente risistemato, secondo i criteri del neogotico (cella campanaria con bifora e merlature superiori a coda di rondine; una cella campanaria simile, esistente oggi, è quella della chiesa arcipretale di Castion). Di nuovo scossa nel terremoto del 1936, venne nel’40 rifatta come è oggi.
Palazzo Crepadona
Il complesso è un palazzo nobiliare cinquecentesco che fu edificato da Niccolò Crepadoni unendo una serie di edifici precedenti, di cui l’altana conserva forse l’impianto di una delle antiche torri, che sopravanzavano le mura cittadine.
Resti degli affreschi originari si possono ancora scorgere al piano terra e al primo piano. Sotto il porticato del cortile è stato collocato dal 1981 il sarcofago romano di Flavio Ostilio Sertoriano e di sua moglie Domizia, del III secolo, rinvenuto nel 1480 scavando le fondamenta del campanile di S. Stefano, già precedentemente innalzato su colonne in piazza duomo, tra cattedrale e palazzo comunale, e poi di fianco alla stessa chiesa di S. Stefano. La Crepadona è sede della biblioteca civica
Palazzo dell’antico Consiglio de’ Nobili
Il palazzo dell’antico Consiglio de’ nobili di Belluno (detto anche “Caminada dei Nobili”), vecchia sede del Tribunale di Belluno, era situato nell’antica piazza Duomo, nell’edificio tutt’ora esistente ed oggi occupato dagli uffici comunali, edificio adiacente al Municipio.
Tale costruzione risale al periodo tra il 1838 e il 1840, in piena dominazione austriaca, prese il posto del Palazzo dell’antico Consiglio de’ nobili di Belluno (detto anche “Caminada dei Nobili”), edificio quattrocentesco, considerato in rovina, senza programmi di ristrutturazione e pertanto demolito. Sulle sue fondamenta venne eretto, su progetto del Segusini, l’attuale Municipio (Palazzo rosso), la facciata del quale conserva alcuni elementi del citato Palazzo de’ Nobili e appunto il palazzo dell’I.R. Tribunale, in stile fortemente neoclassico, dove gli uffici giudiziari dimorarono per circa 150 anni passando dall’amministrazione asburgica a quella savoiarda ed infine a quella repubblicana.
Frammenti degli affreschi sono di Jacopo da Montagnana (PARISATI, Jacopo “Jacopo di Parisio, Jacopo da Montagnana”. – Incerta è la data di nascita di questo pittore, figlio del cerdo “calzolaio o conciapelli” Parisio di Parisio. La proposta di fissarla tra il 1440 e il 1443, avanzata da Andrea Moschetti “in Lazzarini, 1908, ed. anast. 1974, p. 118”, è stata accolta dalla critica successiva con l’eccezione di Mauro Lucco “1990”, più propenso a ipotizzare una data attorno al 1448). Entro il 12 novembre 1490 il pittore decorò ad affresco la sala del Consiglio maggiore del palazzo comunale di Belluno, che conosciamo grazie ad alcuni frammenti di affresco conservati nel locale Museo civico, ai disegni di Ippolito Caffi e alle incisioni di Melchiorre Toller (Catalogo, 1983).
Per la sala del Consiglio Maggiore e di Pomponio Amalteo (AMALTEO, Pomponio. – Pittore friulano, nacque a Motta di Livenza nel 1505 da Leonardo e Natalia Amaltei. Fu scolaro del Pordenone, di cui sposò la figlia Graziosa, e si tenne strettamente sulle orme del maestro. Verso il 1536, dalla Motta si trasferì a S. Vito, dove passò quasi ininterrottamente il resto della sua lunga vita, chiusa il 9 marzo 1588). Nelle pitture, tanto a fresco che su tela, l’A. rivela la diretta discendenza pordenoniana, della cui maniera però accentua i difetti non compensati dalla grandiosità creativa del maestro.
Non gli mancano però, specie negli affreschi, vaghezza di colorito ed equilibrio di composizione. Restano opere dell’A. a Belluno nel Salone dei Notai rappresentanti episodi di storia romana recuperati dalla demolizione del palazzo dell’antico Consiglio de’ nobili di Belluno (detto anche “Caminada dei Nobili”)in piazza del Duomo, il palazzo fu abbattuto verso la fine dell’800 perché fatiscente e lasciò il posto all’attuale ex tribunale ora uffici municipali. Gli elementi architettonici, bifore e balaustre, furono incorporati nella attuale facciata del Municipio (Palazzo Rosso).
Gli innumerevoli busti di nobili dell’ epoca sono sparsi per Belluno specialmente all’esterno del teatro Comunale del Segusini, oltre che nel palazzo delle “scale mobili”.
Palazzo delle Poste
Realizzato nel 1936-38 su progetto dell’architetto Alberto Alpago-Novello nell’area che per i precedenti mille anni aveva ospitato il castello cittadino, di cui rimane solo il nome che ha lasciato alla piazza. Il complesso militare, dopo il progressivo abbandono patito in epoca veneziana, venne completamente abbattuto dopo il 1806, per far posto ad abitazioni civili ed alla sede ottocentesca delle carceri cittadine. Qualche rudere è ancora visibile nel giardino a fianco del palazzo delle poste, sicuramente il maggiore esempio ancora visibile a Belluno dell’architettura pubblica dell’epoca fascista.
Lo studio milanese di Alpago Novello, Cabiati e Ferrazza fu molto attivo nella colonia libica tra la fine degli anni Venti e la prima metà del decennio successivo. I tre professionisti avevano avuto un percorso comune perché erano stati compagni di compagni di corso al Politecnico di Milano e si erano diplomati nello stesso periodo. Alpago Novello e Cabiati per primi avevano costituito a Milano uno studio associato al quale, nel 1919, si unirà Ferrazza; quest’ultimo si staccò dalla struttura nel 1935 per trasferirsi in Eritrea dove continuerà la sua carriera professionale. I primi lavori in Libia furono affidati allo studio nel 1928 grazie a un ufficiale del Governo della Cirenaica, amico di Cabiati e Terrazza: si trattava della nuova residenza del Governatore (1928-34) e della cattedrale (1928-34) a Bengasi; a essi seguiranno i due piani regolatori generali di Tripoli (1930-36) e di Bengasi (1930-36).
Le altre importanti realizzazioni saranno i quartieri I.N.C.I.S. a Bengasi (1930-1932) e a Tripoli (1931-34), la Cassa di Risparmio della Cirenaica a Bengasi (1931-34) e il Banco di Roma a Tripoli (1932-34). Quando gli architetti cominciarono a operare in Libia, le loro figure erano state inquadrate dalla critica dell’epoca13 nel dibattito italiano e fatti rientrare nel Novecento milanese. L’ambito culturale di appartenenza restava perciò quello dei “neoclassici”, che nella logica di contrapposizione dei blocchi, cara alla letteratura dell’epoca, rappresentava un’alternativa alla ricera coeva dei giovani razionalisti del Gruppo 7.
Ma la storiografia architettonica odierna ha rivisto queste categorie assolute dell’avanguardia e del ritorno all’ordine, agevolando la comprensione delle poetiche delle singole personalità, più complesse e articolate di quanto la classificazione della critica ne facesse intuire. Nella prima presentazione dei lavori libici dei tre architetti, Ferdinando Reggiori, che aveva collaborato con Alpago Novello ad alcuni studi urbanistici per Milano, ritrovava nei loro interventi nella colonia tre criteri fondamentali: la cesura con la tradizione dell’Eclettismo, escludendo il ricorso allo stile «moresco», la debita considerazione dei dati climatici del territorio nel quale si costruisce, e infine l’ispirazione all’edilizia spontanea del Mediterraneo, come quella visibile sulle coste dell’Italia meridionale, che in quanto «classica» e «ragionata» era vista come un’espressione pura del carattere dell’architettura nazionale.
Nell’articolo redazionale comparso nel 1931 su «Architettura e Arti Decorative» invece si metteva in rilievo come l’orizzontalità delle masse del palazzo e lo slancio verticale della torre si dovevano ricollegare alle forme delle moschee locali, mentre le sobrie decorazioni che risaltavano sulle lisce e bianche pareti tradivano la derivazione classica e italiana: L’altra opera di rilievo degli architetti milanesi era il quartiere I.N.C.I.S.20 di Tripoli, costruito tra il 1931 e il 1934, e questa realizzazione appariva ancora più interessante perché fu chiamato a collaborare Luigi Piccinato.
La Direzione dell’I.N.C.I.S., derogando alla norma di ricorrere al proprio Ufficio Tecnico, aveva affidato l’incarico a professionisti già noti per la loro attività in Tripolitania e Cirenaica e per questo motivo il progetto fu sostenuto dal Governo della Colonia. Il quartiere era ubicato in una zona centrale della città contigua all’oasi, che era stata vincolata dal nuovo Piano Regolatore, dietro il parco della residenza del Governatore e di fianco al quartiere di villini della Cooperativa “Italia”. Il lotto di forma trapezoidale era delimitato da tre strade, Sciara ben Asciur, via Virgilio, via Cesare e dalla linea ferroviaria per Tagiura. Era composto da undici edifici e aveva un impianto che si discostava da quello della “città-giardino”, tipico dei nuovi quartieri di Tripoli, ossia formato da piccole case a una o due piani che, insieme alle strade della lottizzazione, determinavano spazi verdi scarsi e frammentati.
Nel caso specifico, le abitazioni, a due e tre piani, erano distribuite lungo il perimetro del lotto, lasciando nella parte centrale una vasta area con i palmizi esistenti conservati; qui erano ricavati campi da gioco e un piccolo giardino per ciascuna unità abitativa. Il quartiere nel complesso comprendeva 36 appartamenti di due vani utili, oltre alla cucina, al bagno e all’anticamera; 168 di tre vani; 60 di quattro vani e 48 di cinque vani. Gli alloggi erano dotati anche di un terrazzo coperto che fungeva da soggiorno, mentre alcuni servizi domestici erano dislocati sul terrazzo di copertura. Inoltre nel quartiere vi erano due portinerie e sulla via principale si affacciavano dieci negozi che dovevano servire per i residenti, poiché la zona era scarsamente popolata.
L’architettura del quartiere I.N.C.I.S. era contraddistinta da una grande sobrietà compositiva e dall’assenza di decorazioni; la sua “intonazione” all’ambiente era ottenuta solamente attraverso l’accostamento di volumi semplici e l’adozione di pareti lisce e di tetti piani, senza alcun ricorso a 92 motivi del repertorio tradizionale del luogo. La costruzione degli alloggi era in muratura di pietra locale, con i solai misti in cemento armato e laterizi e sotto i terrazzi vi era un’intercapedine per l’isolamento termico. Alcuni dettagli, come il motivo dell’ingresso principale e i contorni delle porte erano realizzati in pietra di Azizia, mentre le altri superfici erano rifinite a intonaco naturale o colorato con “Silexore”.
La terza opera realizzata dallo studio, che la critica dell’epoca ritenne tra le migliori dell’architettura coloniale italiana, era la nuova sede della Cassa di Risparmio della Cirenaica21 a Bengasi in via Roma. L’istituto bancario affidò l’incarico agli architetti milanesi nel 1931; l’anno seguente fu presentato il progetto definitivo e nel 1934 la costruzione venne completata. All’inizio l’area prevista per la nuova sede era in Piazza del Re, vicino al lungomare, ma la Direzione per vari motivi scartò questo luogo, scegliendo un isolato libero tra via Roma, via San Francesco, via Milano e una strada privata. Sebbene in posizione periferica rispetto al centro di Bengasi, via Roma era comunque un asse viario importante, tracciato attraverso il cimitero di Sidi el Sciabbi per unire Piazza del Re e i quartieri italiani alla città araba. Nel primo progetto l’edificio doveva ospitare anche la Camera di Commercio e il Circolo dei Commercianti, che però trovarono sistemazione in una sede autonoma; di conseguenza il volume venne ridotto eliminando l’ultimo piano, ma la distribuzione non subì modifiche di rilievo.
Il palazzo fu costruito in cemento armato e pietra tenera locale su tre piani con un seminterrato. In un articolo del 1935, uscito su «Rassegna di Architettura», si ponevano in risalto l’impostazione cubica della Cassa di Risparmio, che si accordava alle masse elementari delle architetture libiche, e l’uso dell’intonaco dipinto di bianco, con alcune zone colorate, come la parte centrale dell’ultimo piano dell’edificio, alla maniera dei portali delle abitazioni locali, i cui colori squillanti spiccavano contro il candore abbagliante delle facciate. Ma, al di là di questi labili riferimenti all’architettura libica, si puntualizzava soprattutto l’aspetto classico della Cassa di Risparmio, nel pieno rispetto della tradizione italiana.
Per la città complessivamente gli anni ‘30-‘40 furono dunque anni di grande mutamento: il concorso per il piano regolatore generale Alpago Novello – Barcelloni – Cabiati, la rettifica di via Caffi, la costruzione di nuovi moderni edifici a destinazione pubblica: Nuove Carceri, Palazzo delle Poste, caseggiato Incis piazzale Marconi; case Incis di via I° novembre, case popolari Borgo Prà e Quartier Cadore, Ponte della Vittoria; la Casa dell’Opera Nazionale Balilla, rinnovo dell’impianto di illuminazione pubblica, d’acquedotto, ecc.
Porta Dante
Inaugurata nella forma attuale il 15 maggio 1865, alla fine del cinquantennio di dominazione asburgica a Belluno, quale simbolo patriottico della ritrovata unità culturale italiana, in realtà sostituì la precedente porta Reniera, realizzata nel 1669 dal rettore veneto Daniele Renier da cui prese il nome, il cui stemma in pietra compare ancora sul fronte della porta verso Piazza dei Martiri. La porta Reniera aveva a sua volta preso il posto di un’antica pusterla, cioè un’apertura di servizio presente nel tratto delle antiche mura tra porta Dojona e il castello, denominata Ussolo, cioè porticina.