Forno di Zoldo

Forno di Zoldo

Devi sapere che il 23 febbraio 2016 si è fuso con Zoldo Alto per formare il nuovo comune di Val di Zoldo.

Forno di Zoldo
(Al Fôr in ladino)

Geografia

Il territorio di Forno di Zoldo si estende sul tratto della Val di Zoldo compreso tra le località Mezzocanale a sudest e Fop a nordovest. Vi fanno parte inoltre alcune valli laterali, di cui la principale è quella del Cervegana-Mareson che, attraverso il passo Cibiana, mette in comunicazione lo Zoldano e il Cadore.

Nel cuore delle Dolomiti, il territorio è completamente montuoso, con altitudini che variano dai 604 ai 2.550 m s.l.m., individuate rispettivamente sul letto del Maè all’estremità sudest e sulla cima del monte Tamer, del gruppo di San Sebastiano. Altri rilievi degni di nota sono il Pramper (2.409 m), le cime di Mezzodì (2.324 m) e il gruppo di Bosconero (2.468 m).

Corso d’acqua principale è il Maè, il torrente che segna l’intera vallata. Dopo aver superato il capoluogo, forma il lago di Pontesei, di origine artificiali.

Storia (Testi Di Paolo Lazzarin)

Lo storico bellunese Giorgio Piloni fa riferimento a una presunta colonizzazione di Zoldo da parte di antichi popoli veneti in una sua historia edita nell’ anno 1607 ( “… gran parte del territorio bellunese era dalli Norici habitato….e specialmente Zaurnia Castello da loro edificato quale si chiama ora Zaudo….”), ma non esistono prove che lo confermino. Neppure di insediamenti romani vi sono tracce, anche se alcuni ipotizzano che già nel primo secolo avanti Cristo fosse inziata in valle quell’ attività mineraria poi documentata nell’Alto Medioevo.

Le uniche prove del passaggio dei romani sono le tre iscrizioni rupestri scoperte negli anni Trenta sulle pendici della Civetta, due delle quali in versante agordino e una in versante zoldano, ai piedi del monte Coldài. Le incisioni – FIN (es) BEL (unatorum) IUL (iensium)- hanno un significato confinario e sono databili attorno ai primi anni dell’Impero di Roma (I-II secolo dopo Cristo). La terminatio delimitava dunque pascoli e boschi tra Catubrini, soggetti alla giurisdizione di Iulium Carnicum, e Belunati, che si erano spinti fino alla testata del Maè, ma non certo con insediamenti stabili.

Bisogna arrivare a Carlo Magno per avere certezze, quando il territorio bellunese fu assegnato ai vescovi e in un documento compare il primo esplicito riferimento a Zoldo, che lascia comunque supporre l’esistenza di nuclei abitati già ben consolidati. Una bolla papale del 18 ottobre 1185 conferma infatti al vescovo di Belluno i suoi territori di giurisdizione, fra i quali “…plebem Sancti Floriani de Zaoldo cum capellis suis et comitatum cum jurisdictione et districtu ipsius Zaoldi…”.

Ville e Regole

Ville e Regole: Il Capitaniato

I regolieri di ogni frazione si riunivano in assemblea generale il giorno di S. Giorgio (23 aprile) per eleggere il marigo che aveva funzioni direttive, il saltaro che fungeva da guardia boschiva e il terminatore a cui competeva dirimere le dispute sui confine. Ai marighi spettava anche il compito di eleggere quattro consoli che, assieme al capitano, nominato dai nobili di Belluno, e al cancelliere formavano il Consiglio Generale, che aveva sede a Forno nel cinquecentesco palazzo della Ragione detto anche palazzo del Capitaniato di Zoldo.

Il titolo di Regoliere spettava a ogni maschio e femmina di singola famiglia (foco) con cognome “originario” di appartenenza alla Regola, il luogo di residenza era detto “loco” e garantiva l’appartenenza attiva alla Regola, chi lasciava il “loco” perdeva il titolo, chi non aveva “foco” non aveva titolo, da cui il detto “aver foco e loco”, ovvero essere parte di famiglia stabilmente residente, originaria Zoldana.

Monumenti e luoghi d’interesse

Architetture religiose

Chiesa di Sant’Antonio abate

Sorge all’estremità occidentale di Forno di Qua (borgo Sant’Antonio). Esistente, pare, già prima del 1454, fu ampliata e restaurata nel 1619. Ai primi dell’Ottocento, sotto Napoleone, fu soppressa la confraternita di battuti che la gestiva e venne privata dei suoi beni dotali. Passò quindi alla diretta cura dei fedeli, ma questo portò a una grave situazione di povertà che perdurò per tutto il secolo. Solo dopo la grande guerra, che provocò diversi danni, subì un drastico restauro. Già dipendente dalla Pieve di Zoldo, nel 1936 fu dichiarata parrocchiale. Sulla facciata sussistono degli affreschi risalenti a fine Settecento. Di questi, si cita, sopra il rosone, un grande disegno che rappresenta i Battuti inginocchiati sotto il mantello della Vergine, con i santi Antonio abate, Antonio da Padova con il Bambino, Rocco e Bartolomeo. L’altare maggiore è un lavoro ligneo di Jacopo Costantini, dotato di un’ancona divisa in due parti: in quella inferiore, trovano posto le figure di Sant’Antonio abate al centro e dei santi Carlo Borromeo e Macario ai lati; in quella superiore è collocato il Cristo risorto; il tutto è concluso da un timpano con sopra la statua di Sant’Antonio da Padova. Il tabernacolo è attribuito a Giovanni Paolo Gamba Zampol. A questo si aggiungono i due altari di Sant’Antonio da Padova e di San Silvestro. Il primo è stato realizzato da Giovanni Auregne nel 1667 ed è ornato da una pala dipinta di Nicolò De Barpi raffigurante Sant’Antonio da Padova in adorazione del Bambino Gesù. L’altro è pure opera di Jacopo Costantini; di pregio l’alzata, che ospita le statue di San Silvestro tra i santi Floriano e Bartolomeo.

Chiesa di San Francesco

Si trova nell’omonimo borgo, nei pressi del palazzo del Capitaniato e adiacente all’antica casa Sommariva “Ciori”. Le prime notizie su di essa risalgono al 1570. Come Sant’Antonio, dipendeva dalle cure della confraternita dei Battuti, che vi si riuniva alla vigilia di ogni festività per la recita delle litanie. Con le soppressioni Napoleoniche, anche San Francesco passò al demanio, venendo spogliata dei suoi ricchi arredi (di cui resta un minuzioso elenco dei primi del Settecento). Quando, qualche anno dopo, fu riaperta al culto, versava in condizioni deplorevoli, tanto che il vescovo di Belluno Luigi Zuppani fu costretto a chiuderla nuovamente. Dopo alcuni tentativi di restauro, nell’estate 1889 fu quasi del tutto demolita e ricostruita, venendo benedetta già il 4 ottobre successivo. Dell’edificio originale resta solo la parete di fondo, decorata con gli affreschi di San Floriano e San Francesco della prima metà del XVI secolo. Degli interni, si cita l’altare ligneo, del 1621, su cui è posta la statua della cosiddetta Madonna d’Aost, scolpita, forse, da Gamba Zampol. Due tele secentesche, di scarso valore, sono state trasferite in un luogo più sicuro.

Chiesa dei Santi Fabiano e Sebastiano

Situata nella frazione di Astragal ed intitolata anche alla Santissima Trinità e a san Barnaba, la dedicazione ai due santi taumaturghi, con cui è comunemente conosciuta, dovrebbe essere posteriore alla sua fondazione: si lega forse ai fatti del 1436, quando nella cattedrale di Belluno fu eretto loro un altare perché placassero un’epidemia di peste. A detta di un’iscrizione riportata sulla facciata sopra l’ingresso principale, è originaria del 1110, tuttavia la prima testimonianza certa è della prima metà del Cinquecento. L’ultima consacrazione è del 1595 ad opera di monsignor Giorgio Doglioni, delegato del vescovo di Belluno Luigi Lollino. La comunità locale è da sempre molto affezionata alla sua chiesa e nei secoli si è presa carico di restauri e ampliamenti. Nel 1759 fu costruita la sagrestia e nel 1797 fu rifatto l’altare maggiore. Nel corso dell’Ottocento fu dato nuovo impulso al culto mariano e nel 1865 venne eretta la cappella della Beata Vergine di Caravaggio. Gli ultimi lavori di manutenzione si svolsero nel 1990. Degli interni va citato l’altare maggiore e i due angeli dell’altare della Santa Croce, tutte opere dell’intagliatore Domenico Manfroi. Di Giovanni Battista Panciera Besarel, padre del più noto Valentino, è invece il gruppo scultoreo della Madonna di Caravaggio (1842). Il campaniletto è del 1984 e sostituì il precedente del 1924. La chiesa è il fulcro di una sagra che si svolge ogni anno il 20 gennaio.

Chiesa di San Rocco

La Chiesa di Bragarezza fu eretta a partire dal 1633 per invocare l’intercessione del santo taumaturgo per eccellenza, san Rocco, contro una terribile pestilenza che in quel periodo infuriava nella valle. L’opera fu voluta e finanziata non solo dalla comunità di Bragarezza, ma anche da quelle di Fornesighe, Casal, Cella, Calchera, Pra, Sommariva, Campo, Sottorogno e Colcerver. A causa delle difficoltà nel reperire denaro e manodopera, la costruzione fu assai lenta. All’interno è conservata una pala con la Madonna e santi di ignoto (1666).

Chiesa dei Santi Ermagora e Fortunato

Si trova sul ciglio orientale del pianoro su cui sorge il paese di Colcerver, offrendo un notevole panorama sulla bassa val Zoldana. Venne eretta tra il 1739 e il 1741su iniziativa della famiglia Panciera, la quale la dotò di dieci livelli sui propri terreni. Si presenta come un piccolo edificio dalle linee molto sobrie. Gli ingressi sono due, quello principale, sovrastato da un oculo, e uno secondario aperto sul lato nordorientale; presentano entrambi stipiti lavorati in pietra di Castellavazzo. L’interno, a navata unica, custodisce un solo altare con alzata lignea dipinta. Degne di nota le tre acquasantiere, anch’esse in pietra di Castellavazzo. Dal lato destro del coro, caratterizzato dal soffitto a vele, è possibile accedere alla sagrestia. All’esterno si trova un minuscolo campanile di legno, con una sola campana; di quello originale resta una finestrella sulla facciata.

Chiesa di Santa Caterina

Dell’edificio eretto a Dont si hanno notizie solo dall’inizio del Cinquecento ma la sua origine è certamente più antica. Le prime attestazioni, infatti, riferiscono che all’epoca la chiesa era già consacrata e che disponeva di sagrestia, cimitero e anche di alcune proprietà terriere (prati a Colcerver). Sul finire del secolo si cominciò a progettare il campanile. Nel 1729 la regola di Dont chiese e ottenne dal vescovo di Belluno Valerio Rota di ampliare il luogo di culto a causa dell’aumento della popolazione. I lavori si protrassero sino al 1734-1735. Nel 1780 venne costruito l’attuale campanile, in sostituzione del precedente secentesco. Altri rifacimenti si ebbero attorno al 1898, quando la chiesa fu elevata a parrocchiale, e nel corso del Novecento. Santa Caterina custodisce numerose opere d’arte di pregio. Presso l’arco trionfale si trovano due statue policrome (Crocifisso tra la Madonna addolorata e San Giovanni evangelista) scolpite da un anonimo nel 1734, mentre sulle lesene dello stesso sono stati appesi due affreschi (San Rocco e San Sebastiano) staccati dalla vicina casa De Lazzer e attribuiti ad Antonio Rosso (XV-XVI secolo). L’altare maggiore è di Giovanni Battista Panciera Besarel (padre del più noto Valentino); dello stesso autore una Madonna della Salute con Bambino posta nella nicchia soprastante, realizzata nel 1836 per chiedere la fine di un’epidemia di colera. Le pareti del presbiterio e del soffitto sono decorate da un ciclo di affreschi con figure di santi di Carlo Alberto Zorzi (1947). L’altare di sinistra, dedicato alla Passione, è stato trafugato nel 1985; resta solo l’alzata, ricostruita nel 1995 impiegando alcune statue secentesche di Giovanni Battista Auregne. Dello stesso periodo è un altro altare in legno dorato che richiama l’arte dei Costantini. Nella cappella di destra è esposto un imponente monumento ad Andrea Brustolon, realizzato nel 1878 da Valentino Panciera Besarel e inaugurato nel 1885. Infine, vanno citate due tele di Lorenzo Pauliti (mediocre artista cinquecentesco), una copia dell’Ultima cena della chiesa di Astragal e un dipinto ottocentesco di Giovanni Battista Lazzaris, contadino del luogo che si cimentò nella pittura da autodidatta.

Chiesa di San Vito

L’edificio sacro si trova nel villaggio di Fornesighe. Già filiale della Pieve di San Floriano e dal 1961 parrocchiale, di questa chiesa si hanno notizie solo dal 1570 ma ha certamente origini più antiche. A partire dal 1727, in base a una richiesta avanzata dai regolieri di Fornesighe un decennio prima, la chiesa viene gradualmente risistemata e ampliata assumendo l’aspetto attuale. A questo periodo risale l’altare maggiore, opera di Giovanni Paolo Gamba Zampol (1761 ca.). Altri lavori si svolsero negli anni 1920: nel 1923 vennero fuse le nuove campane, nel 1927 fu rifatto il tetto e ampliata la sagrestia, nel 1928 si avviò un restauro generale.

Chiesa di San Floriano

Il paese di Pieve trae il nome da questo monumento che fu in passato pieve matrice di tutte le parrocchie della Val di Zoldo. San Floriano avrebbe avuto origine nel X secolo. Venne citata per la prima volta in una bolla papale di Eugenio III (1145), cui seguirono le menzioni in una bolla di papa Lucio III e in un diploma di Federico Barbarossa (1185). A partire dal XIII secolo subì una serie di rifacimenti che si conclusero con la consacrazione del 1487. Le attuali forme romanico-gotiche rimandano appunto a questi interventi. L’esterno è decorato con degli affreschi, scoloriti, di scuola vecelliana. Gli interni conservano numerose opere di pregio, specialmente lavori in legno realizzati da alcuni celebri intagliatori originari della valle. Fra tutte spicca l’altare delle Anime, grandiosa opera giovanile dell’intagliatore Andrea Brustolon (1687), ornato dalla pala delle Anime purganti di Agostino Ridolfi. L’altare maggiore, in marmo di Carrara e dalle linee rococò (1782) è sormontato da un crocifisso ligneo di Valentino Besarel iunior; dietro è collocata la pala con i Santi Floriano e Giovanni Battista dipinta da Francesco Maggiotto nel 1783. Al coro, costituito da un rivestimento ligneo realizzato da Giovanni Paolo Gamba Zampol e Valentino Bersarel senior, sono stati aggiunti elementi decorativi raffiguranti Episodi della vita di Maria di Giuseppe Cherubin (1913). A Valentino Besarel iunior si devono il gruppo scultoreo della Madonna del Rosario (1897) e la Vergine Assunta in legno gessato e colorato. Sulla parete di sinistra spiccano due tavole attribuite quattrocentesche a Girolamo da Trento. Nei pressi del fonte battesimale, cinquecentesco, si collocano l’altare dello Spirito Santo, recante una pala, forse, di Domenico Falce (prima del 1647), e l’altare di San Rocco, con una tela attribuita a Francesco Frigimelica[non chiaro] (XVII secolo). Vanno inoltre citati il tabernacolo “Bardellino”, singolare manufatto in pietra commissionato dal pievano Giovanni Battista Bardellino (XVI secolo), una Pietà in arenaria dei primi del Quattrocento, la tela ad olio con i Santi Antonio da Padova e Teresa d’Avila, di un anonimo settecentesco, e alcune tele di Marco Vecellio. L’organo, pregevole strumento del 1812, è di Antonio e Agostino Callido, ancora vivente l’anziano padre Gaetano Callido a cui erano subentrati alla direzione della ditta (1807) nel rispetto dei canoni costruttivi. Il campanile è più tardo della chiesa: l’originale, iniziato nel 1562 e concluso solo nel 1670, fu distrutto da un incendio nel 1835. Fu ricostruito nel 1844 da Antonio Talamini Pol e Giovanni Battista Panciera Besarel, padre del già citato Valentino. Alto 47 metri, si caratterizza per la guglia ricoperta da scandole di larice. Le campane sono recenti poiché quelle originarie furono donate alla Patria durante la prima guerra mondiale.

Chiesa dell’Addolorata

Si trova anch’essa a Pieve. Un affresco posto sulla chiesa ne fa risalire la fondazione al XIII secolo, ma la prima menzione dell’edificio sacro risale al 1541. In stile gotico con aggiunte neogotiche, contiene un grandioso altare opera di Valentino Panciera Besarel.

Vecchio cimitero dell’Addolorata

Operativo dal 1836 fino al 1948, è oggi avvolto nella macchia e conserva lapidi e cappelle funebri.

Chiesa di Sant’Andrea

Le origini della chiesa di Pralongo risalgono al 30 agosto 1626, quando i fratelli Alvise, Giacinto e Giulio Gottardo Zampolli chiesero al vescovo di Belluno Giovanni Dolfin di innalzare una chiesa in luogo del sacello che anni addietro il loro padre Giovanni aveva costruito in onore di san Gottardo. La proposta fu accolta: il 5 maggio 1627 fu posata la prima pietra e già l’anno successivo l’edificio era sostanzialmente ultimato. Un documento del 1662 che la descrive testimonia come abbia mantenuto grossomodo le forme originali sino ai giorni nostri. Da segnalare, nel 1669, la costruzione della sagrestia e, nel 1695, lavori di manutenzione e abbellimento. Tutti gli interventi furono iniziativa della famiglia Zampolli che rimase sino ai tempi recenti proprietaria della chiesa; forse per questa ragione, non fu colpita dall’incameramento dei beni ecclesiastici attuato in epoca napoleonica. Negli anni 1940 Teresa Marcon in Zampolli eseguì le decorazioni pittoriche sulle vele del presbiterio e sull’antipetto dell’altare. Infine, all’inizio degli anni 1970 fu effettuato un radicale restauro. All’interno sono conservate le due pale (Set e Madonna del Soccorso e san Gottardo) di anonimi. Oggi è compresa nella parrocchia di Forno di Zoldo.

Chiesa della Madonna del Rosario

Il piccolo edificio di Villa venne realizzato tra il 1893 e il 1894 dagli abitanti del luogo, in sostituzione di un oratorio demolito anni addietro. La costruzione procedette a rilento, soprattutto a causa della scarsità di mezzi di cui disponeva la popolazione. Non presenta aspetti artistici di particolare rilevanza, ma è tutt’oggi gelosamente custodita dagli abitanti.

Architetture civili

Palazzo del Capitaniato

Detto anche Palazzo della Ragione, è l’antica sede del capitano di Zoldo, il governatore inviato dal consiglio dei nobili di Belluno ai tempi della Serenissima. Sulla facciata si può notare lo stemma lapideo della famiglia bellunese dei Pagani, accompagnato dalla data 5 aprile 1601. Restaurato nel 1988, dalla primavera del 1997 l’edificio ospita il Museo del Chiodo, alla cui fondazione contribuì anche lo storico Giuseppe Šebesta.

Ex municipio

Al suo interno sono conservate alcune opere di pregio, tra cui una Deposizione attribuita a Palma il Giovane e un Cristo in croce assegnato a Francesco Frigimelica, nonché una statua dell’Italia turrita di Valentino Besarel. Su un grande pannello è esposta una collezione di chiodi prodotti all’inizio del Novecento dai fabbri locali.

La Valle dei Ciodaroti (Testi Di Paolo Lazzarin)

Nel 1347 Carlo IV di Trento assegnò a Jacopo degli Avoscano, nobile famiglia dell’ Alto Cordevole, i capitaniati di Agordo e Zoldo, allora accomunati da interessi minerari. Secondo lo storico Tomaso Catullo l’ industria siderurgica era attiva in Zoldo fin dal 1200 e da documenti della metà del 1300 risulta che a Forno esistesse un forno definito “vecchio”, che fondeva forse il ferro estratto a Dont, o più probabilmente la pirite proveniente dalle miniere di Val Inferna, secondo alcuni attive già nell’anno Mille.

[…] Zoldo, così nominato, ove sono gli asperi monti, da i quali se ne cava grand’abbondanza di ferro“. scriveva Leadro Alberti nel 1551. In realtà non di miniere era ricco Zoldo, ma di officine. Nel XIV e XV secolo contava solo 1700 anime, ma l’attività di fusione e lavorazione del minerale ferroso aveva raggiunto livelli “industriali”: tre altiforni fondevano il ferro, una decina di forni di seconda fusione producevano acciaio e ferro dolce, e un numero imprecisato di fusinèle fabbricavano più di 400 tonnellate di chiodi e attrezzi di lavoro.

Dal 1200 al 1600, soprattutto sotto la dominazione della Repubblica di Venezia, si ebbe in Zoldo il periodo di massima fioritura della lavorazione del ferro (e in misura minore dell’attività estrattiva), che ha caratterizzato la storia della valle fino alla fine dell’Ottocento, e che giustifica i simboli dell’ incudine e del martello che compaiono sullo stemma del municipio di Forno di Zoldo.

L’ impronta veneziana è presente a Forno nel Palazzo del Capitaniato (dove risiedeva il capitano inviato dal consiglio dei nobili di Belluno e che ora ospita il Museo del chiodo) e in altri palazzi dei notabili della valle (sulla riva destra del Ma è visibile il palaz fatto erigere dalla famiglia Grimani, concessionaria delle miniere di Val Inferna).

Sono testimonianze di anni prosperi sotto il governo della Serenissima, che dalla valle attingeva maestranze e riceveva attrezzi da lavoro, lame e chiodi. I chiodi di ferro in particolare sono stati un prodotto distintivo dello Zoldano. Chiodi di ogni forma e dimensione e per ogni utilizzo, dalle piccole brochè per le suole delle scarpe ai grandi ciòdi da barca per fissare il fasciame delle navi, fino agli enormi somesàt, lunghi più di un metro, per le travature dei moli. Le merci venivano trasportate a dorso di mulo lungo la malagevole strada del Canale, a Codissago venivano caricate su zattere che scendevano il Piave e arrivavano a Venezia, dove attraccavano al molo ancora oggi chiamato delle Zattere.

La Valle del Gelato Artigianale

L’attività metallurgica non deve far pensare che in valle non fossero praticate le tradizionali attività della montagna, ma agricoltura e pastorizia non sono mai state sufficienti a garantire con continuità l’economia delle popolazioni alpine.

Già all’inizio dell’Ottocento erano apparse in Zoldo le prime avvisaglie di emigrazione massiccia, e comunque anche nei secoli precedenti i valligiani avevano cercato lavoro lontano da casa. Numerosa fu la manodopera scesa all’arsenale di Venezia a esercitare le “arti meccaniche” o quella di “maestro d’ascia”, per le quali gli zoldani erano molto ricercati, e molti altri raggiunsero miniere e cantieri dell’ Europa centro-orientale ai tempi dell’ impero austro ungarico. Più significativi, e premonitori di un fortunato futuro, sono però i primi abbozzi di attività commerciale che iniziarono nella seconda metà dell’Ottocento in forma stagionale e itinerante.

artigiani del gelato Alla figura dello zoldano boscaiolo e fabbro dobbiamo allora associare quella del venditore ambulante, attività in cui non mancò di distinguersi, come era stato per esempio per la famiglia Colussi, originaria di Pianàz, emigrata a Venezia nel 1700 a far biscotti. Alla fine del secolo ebbe inizio anche l’emigrazione verso le Americhe, soprattutto del Centro e del Sud, come ricorda a Forno il ponte sul Maè, battezzato Rio Jordao in occasione del gemellaggio con quel piccolo villaggio dello stato di Santa Caterina, in Brasile, dove ancora oggi si parla dialetto zoldano.

Gli zoldani dapprima giravano per le città dell’Impero con le caudiere delle pere cotte o le ceste di biscotti e caramelli; poi iniziarono a vendere “sorbetti” con i caratteristici carrettini, e nel periodo fra le due guerre non c’era città d’Europa che non contasse una gelateria zoldana. Oggi il gelato artigianale zoldano è conosciuto in tutto il mondo, fino in Cina, Giappone e Sud Africa, tanto che Zoldo é definita “la valle del gelato”.

Onorificenze

Il 27 giugno 1907 Forno di Zoldo divenne la XXI città decorata con Medaglia d’Oro come “Benemerita del Risorgimento nazionale” per le azioni altamente patriottiche compiute dalla città nel periodo del Risorgimento.

Medaglia alle Città Benemerite del Risorgimento Nazionale
«In ricompensa delle azioni patriottiche dei suoi abitanti nel periodo del risorgimento nazionale. Nodo strategico del Cadore, Forno di Zoldo si sollevò nel 1848, costituendo un comitato insurrezionale che si pose in difesa della vallata. Più volte gli abitanti respinsero le offensive degli austriaci, che non riuscirono mai a occupare il Comune. Gli zoldani deposero le armi soltanto quando tutto il resto del Cadore era stato occupato, ma molti volontari accorsero immediatamente alla difesa di Venezia.»

 

 

Da sapere su

Forno di Zoldo
La data di nascita della Comunità di Zoldo si può considerare il 22 agosto 1224, quando ottenne il diritto di essere rappresentata da due consoli nel Consiglio dei Nobili di Belluno. Si formarono e rafforzarono allora le Regole, tra le quali si distribuiva l’ utilizzo e la tutela dei pascoli e dei boschi concessi alle varie ville (villaggi) in forma di proprietà collettiva per investitura della Serenissima Repubblica di Venezia. Tale unità amministrativa si conservò fino al principio dell’Ottocento, quando vennero costituiti i due comuni attuali (Forno di Zoldo e Zoldo Alto). In Zoldo si contavano dieci Regole, molte delle quali formate da più paesi, nel qual caso il paese più grande (Regola Granda) dava il nome alla regola.

Frazioni di

Forno di Zoldo
Ciamber, Dont, Fornesighe, Pralongo, Soccampo, Sottolerive, Villanova

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