Longarone

Longarone

È stato istituito ex novo dalla fusione dei preesistenti comuni di Longarone e Castellavazzo in base alla legge regionale 9 del 21 febbraio 2014.
longarone

Longarone
(Longarón in veneto)

Il territorio di Longarone era certamente abitato dai Romani. Cospicui, infatti, vi sono stati i ritrovamenti archeologici dell’epoca. A Fortogna si sono rinvenute tombe romane; altre, di periodo imprecisato, sono venute alla luce presso Pirago; Dogna ha dato un sepolcreto con monete, armille, anelli, vasi di terracotta scura, Longarone una lapide dedicata ad Asclepio. Resti di via romana, accertati a Roggia, testimoniano il passaggio per la valle di un’arteria di traffico, probabile variante alla Claudia Augusta Altinate.

Il paese nacque probabilmente intorno al 1300, centrato sulla chiesa di san Cristoforo. Singolarmente interessante e importante un’iscrizione che ricordava l’edificazione del luogo sacro. Scolpita a carattere gotico maiuscolo capitale era una delle prime testimonianze del volgare bellunese.
Longarone divenne poi sede di Regola. Il 7 giugno 1623 la Repubblica di Venezia investì del bosco di Cajada la Regola di “Longarone-Igne-Pirago”, elevata a “Magnifica” nel 1712.

Il secolo XVIII portò a Longarone famiglie facoltose che vi esercitarono il commercio, soprattutto del legname, elevando il piccolo centro a ben alti fastigi economici. In pari tempo la cittadina era onorata dell’opera di valenti artisti. Sorsero signorili palazzi, e, sulla fine del secolo, la famiglia Sartori iniziava l’erezione dei Murazzi, alle spalle del paese. Max Reinhardt, il grande regista teatrale germanico, avrebbe voluto allestire, tra gli spiazzi della scalea, le tragedie greche.

Durante la campagna del 1848 Longarone diede largo contributo di uomini alla causa italiana. Fra tutti spicca il nome dell’avvocato Jacopo Tasso (1801-1849), fucilato a Treviso il 10 aprile 1849 e le cui spoglie riposano dal 1937 nella Chiesa-Ossario dei frati di Mussoi a Belluno.

Nella storia di Longarone si distinsero nel campo delle arti l’incisore Niccolò Cavalli (1730-1822) e il pittore e litografo Pietro Marchi (1810-186?), ma più di ogni altro si segnalò Pietro Gonzaga (1751-1831) figlio del pittore bellunese Francesco. Pietro Gonzaga fu scenografo tra i più grandi del ‘700 italiano e fu promosso pittore di corte da Caterina II, Imperatrice di tutte le Russie. A partire dagli inizi del ‘900 Longarone andò acquistando una tipica fisionomia industriale, che portò alla realizzazione di notevoli stabilimenti, quali, ad esempio, la Cartiera Protti e la Faesite.

Il disastro del Vajont 09.10.1963

Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963, circa 260 milioni di m³ di roccia (un volume più che doppio rispetto all’acqua contenuta nell’invaso) scivolarono, alla velocità di 30 m/s (108 km/h), nel bacino artificiale sottostante (che conteneva circa 115 milioni di m³ d’acqua al momento del disastro) creato dalla diga del Vajont, provocando un’onda di piena tricuspide che superò di 250 m in altezza il coronamento della diga e che, in parte risalì il versante opposto distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso, in parte (circa 25-30 milioni di m³) scavalcò il manufatto (che rimase sostanzialmente intatto seppur privato della parte sommitale) riversandosi nella valle del Piave, distruggendo quasi completamente il paese di Longarone e i suoi limitrofi e in parte ricadde sulla frana stessa (creando un laghetto). Vi furono 1917 vittime, di cui 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni.

Lungo le sponde del lago del Vajont, vennero distrutti i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e la parte bassa dell’abitato di Erto. Nella valle del Piave, vennero rasi al suolo i paesi di Longarone, Pirago, Maè, Villanova, Rivalta. Profondamente danneggiati gli abitati di Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna. Danni anche nei comuni di Soverzene, Ponte nelle Alpi e nella città di Belluno dove venne distrutta la borgata di Caorera, e allagata quella di Borgo Piave.

L’evento fu dovuto a una serie di concause, di cui l’ultima in ordine cronologico fu l’innalzamento delle acque del lago artificiale oltre quota di sicurezza di 700 metri voluto dall’ente gestore, ufficialmente per il collaudo dell’impianto, ma con il plausibile fine di controllare la caduta della frana nell’invaso in modo che non costituisse più pericolo. Questo, combinato a una situazione di abbondanti e sfavorevoli condizioni meteo (forti precipitazioni), e sommato a forti negligenze nella gestione dei possibili pericoli dovuti al particolare assetto idrogeologico del versante del monte Toc accelerò il movimento della antica frana presente sul versante settentrionale del monte Toc, situato sul confine tra le province di Belluno (Veneto) e Pordenone (Friuli Venezia Giulia). I modelli usati per prevedere le modalità dell’evento si rivelarono comunque errati, in quanto si basarono su una velocità di scivolamento della frana nell’invaso fortemente sottostimata pari a 1/3 di quella effettiva.

Nel febbraio 2008, durante l’Anno internazionale del pianeta Terra (International Year of Planet Earth) dichiarato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per il 2008, in una sessione dedicata all’importanza della corretta comprensione delle Scienze della Terra, il disastro del Vajont fu citato, assieme ad altri quattro eventi, come un caso esemplare di “disastro evitabile” causato dal «fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema che stavano cercando di affrontare».

Prodromi del progetto

La strutturale carenza italiana di materie prime come il carbone per il proprio fabbisogno energetico aveva portato il paese a diversificare le proprie fonti di approvvigionamento specializzandosi in una politica energetica di ‘energie rinnovabili’ ante litteram che portò allo sfruttamento di valli e corsi d’acqua montani dove vennero realizzate numerose central idroelettriche che avrebbero prodotto la maggior parte dell’energia elettrica prodotta in Italia del Nord, fondamentale per lo sviluppo industriale del paese. Questa politica, pur non considerando appieno le interazioni uomo-ambiente e le necessità di rispetto dell’ambiente, risultava essere una soluzione quasi obbligata.

L’idea di sfruttare come bacino idroelettrico la valle del fiume Vajont tramite una diga venne concretizzata dalla Società Idroelettrica Veneta poi assorbita dalla SADE (Società Adriatica di Elettricità), particolarmente attiva alla fine del XIX e nella prima metà del XX secolo nella distribuzione elettrica nel nord-est italiano (prima della nazionalizzazione del settore elettrico dell’intera Italia attuata attraverso la nascita di un “Ente Nazionale per l’Energia Elettrica”, l’ENEL).

In questo contesto la prima ipotesi di un progetto di massima per lo sfruttamento delle acque del torrente Vajont venne redatta da Carlo Semenza nel 1926. La diga era prevista alla stretta del ponte di Casso (un tempo esistente a est dell’attuale zona artigianale ai piedi del bivio per Casso) e prevedeva una centrale a Dogna. La scelta era figlia di una raccomandazione del Prof. Hug che aveva sconsigliato l’alternativa più a valle all’altezza del ponte del Colomber (dove il manufatto venne in seguito effettivamente costruito).

Nel 1929 venne presentata la domanda di concessione per la realizzazione di un progetto di diga al ponte di Casso (massimo invaso a quota 656 m s.l.m.) con allegata la relazione di Hug del 1926. Gli studi geologici sulla valle interessata dal nuovo invaso proseguirono e nel 1930 Giorgio Dal Piaz presentò una relazione inerente all’assenza di franamenti importanti lungo le sponde del bacino tra la zona di Pineda (a est) e il ponte di Casso (a ovest).

Nel 1937 venne presentato un nuovo progetto con spostamento della diga più a ovest presso il ponte del Colomber all’altezza del punto in cui la strada che da Longarone saliva a Erto valicava la forra sul torrente Vajont passando dalla sponda sinistra a quella destra della valle. Il massimo invaso era previsto a quota 660 m s.l.m.; a esso era allegata una relazione geologica a firma Dal Piaz sostanzialmente combaciante con quella del 1930, che estendeva la validità delle sue affermazioni fino alla nuova posizione della diga. Va sottolineato tuttavia che in una sua precedente relazione del 1928 Dal Piaz si era sempre opposto alla sbarramento della valle presso il ponte di Casso in quanto egli riteneva la roccia di imposta della diga in quel punto poco adatta per cui il manufatto non avrebbe potuto essere più alto di cinquanta metri dalla base del torrente.

Il progetto del “Grande Vajont”

L’idea di mutare in parte il progetto originario formulando l’ipotesi di un unico impianto integrato con gli altri delle valli circostanti viene attribuita a Carlo Semenza che la formulò la prima volta nel 1929. Il progetto viene normalmente identificato con il nome “Grande Vajont”.

Lo scopo del progetto era quello di creare in mezzo ai monti dolomitici una riserva di acqua (serbatoio di regolazione pluristagionale) che permettesse di sfruttare l’energia gravitazionale (perché le dighe consentono di utilizzare l’acqua come fluido di lavoro), sotto forma di potenza idrica, per portare energia elettrica a Venezia e a tutto il Triveneto, anche nei periodi di secca dei fiumi. L’invaso venne creato per accumulare le acque del fiume Piave dopo il loro passaggio nella diga di Pieve di Cadore, dalla quale giungeva nel serbatoio del Vajont tramite tubazioni con dislivello minimo e quindi minor perdita di energia gravitazionale. A questo sistema si aggiungevano, tramite condotte e ponti-tubo, anche i laghi di Vodo e Valle di Cadore (sul torrente Boite), di Pontesei (sul torrente Maè) e della Val Gallina (bacino di carico della centrale di Soverzene).

Era stato dunque concepito un grande sistema di vasi comunicanti, con piccoli dislivelli tra di loro, sfruttati da piccole centrali (Pontesei, Colomber per il Vajont e Gardona) e tutti confluenti nella centrale principale di Soverzene (220 MW, al suo tempo la più grande d’Europa). La profonda gola del torrente Vajont, che nasce dalle Prealpi carniche e si immette nel fiume Piave, costeggiando il Monte Toc, tra la provincia di Belluno e la provincia di Pordenone, istituita successivamente (1968), sembrava essere il luogo più adatto alla costruzione della diga a doppio arco che infine risultò essere la più alta del mondo.

La domanda per una diga nella valle del Vajont alta fino a quota 667m s.l.m. e sbarramento presso il Colomber fu presentata nel 1940. Vi era allegata una relazione di Dal Piaz identica a quella del 1937.

Al termine della seconda guerra mondiale, i progetti sul Vajont vennero ripresi. La concessione definitiva venne accordata con D.P.R. nr. 729 del 21 marzo 1948; il progetto iniziale prevedeva una diga a doppio arco alta 202 m con un invaso di 58,2 milioni di metri cubi. Sempre nel 1948 cominciò a svilupparsi l’idea di poter innalzare il coronamento della diga fino a 679 m s.l.m. sfruttando appieno le caratteristiche geologiche del Calcare del Vajont che caratterizzava il punto di innesto della diga nei fianchi della valle.

Dalla costruzione al disastro

Interno della cabina comandi centralizzati; il tecnico della foto è l’ing. Mario Pancini della SADE, morto suicida nel 1968. La foto è estratta dal film “H MAX 261,6m” di Uni Europa Film, voluto dal progettista dell’opera a memoria del lavoro svolto
Dopo la seconda guerra mondiale il progetto Vajont, fortemente voluto dalla SADE, azienda elettrica privata di proprietà del Conte Volpi di Misurata, già presidente della confederazione fascista degli industriali, inizia a prendere forma e viene quindi presentato per l’approvazione del Genio Civile.

I controlli geologici iniziarono nel 1949 e con essi i primi atti di protesta delle amministrazioni coinvolte dal progetto: la costruzione della diga avrebbe infatti portato gli abitanti dei paesi di Casso e di Erto all’abbandono di abitazioni e di terreni produttivi.

Nonostante le proteste degli abitanti della valle e i forti dubbi degli organi preposti al controllo del progetto, a metà degli anni cinquanta iniziarono i primi espropri fondiari e la preparazione del cantiere: i lavori per la costruzione della diga iniziarono nel 1956, senza l’effettiva autorizzazione ministeriale.

Il progetto ottenne la completa approvazione ministeriale il 17 luglio 1957.

In seguito il progetto fu modificato: la diga avrebbe raggiunto l’altezza di 261,60 m, con un invaso utile di 152 milioni di metri cubi. L’invaso della diga fu a tutti gli effetti maggiore di quanto mai previsto.

Il costo della costruzione della diga fu sostenuto grazie anche ad un contributo del 45% delle spese, erogato all’epoca della progettazione, dal governo.

Nell’agosto del 1958 iniziarono i getti per la costruzione della diga.

Alla fine della riprogettazione, che vide l’innalzamento di circa 60 m e la capacità di bacino triplicata, la diga del Vajont aveva le seguenti caratteristiche:

  • Tipo: diga ad arco a doppia curvatura in calcestruzzo
  • Inizio effettivo lavori: 1957
  • Costruttore: Gruppo S.A.D.E. – Società Adriatica di Elettricità di Venezia
  • Fine lavori: 1959.
  • Altezza complessiva: 264,6 m
  • Larghezza alla base:27 m
  • Larghezza in sommità: 3.4 m
  • Livello di massimo invaso: 722,5 m s.l.m.
  • Livello di massima piena: 462,0 m s.l.m.
  • Livello massimo: 725,5 m s.l.m.
  • Capacità di invaso complessiva: 168,715 milioni di m³ (150 milioni utile)
  • Morti durante la costruzione della diga: 15

Le cause scatenanti le verifiche sulle sponde del lago

Il 15 giugno 1957 il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici dette parere favorevole all’innalzamento della diga con la prescrizione di completare le indagini geologiche

« nei riguardi della sicurezza degli abitanti e delle opere pubbliche, che verranno a trovarsi in prossimità del massimo invaso »

con una decisione che in seguito destò numerosi dubbi, in particolare sull’assenza di una ratio nell’approvare un progetto per il quale venivano richieste ulteriori indagini. Se la questione è stata ampiamente superata dalla normativa moderna (che impone serrati controlli preventivi su tutto il bacino), questa raccomandazione è stata l’oggetto di una disputa tra i fautori delle diverse interpretazioni sui fatti del Vajont, in quanto alcune indagini erano effettivamente state svolte (ad esempio sotto l’abitato di Erto) e oggetto di una relazione di Dal Piaz del giugno-settembre 1957. Le evidenze successive dimostreranno l’incompletezza-inadeguatezza della stessa.

Il 6 agosto 1957 venne consegnato alla SADE un nuovo rapporto geotecnico di Müller (il 2º) nel quale si evidenziavano forti pericoli di frana lungo la sponda sinistra del serbatoio. Era la prima relazione che infondeva dei dubbi sulla sponda sinistra del bacino, pur riferendosi alla sola parte frontale e più superficiale della grande frana del Toc che venne evidenziata solo anni dopo. In questo primo studio le sue indagini non rivelarono la paleofrana che poi sarebbe stata vista come causa determinante dei problemi al serbatoio, anche se la sua conclusione fu che il bacino idrico poteva causare frane, anche di un milione di metri cubi.

Il 22 marzo 1959, dopo che i lavori di costruzione della diga del Vajont erano già iniziati, una frana di circa 3 milioni di metri cubi di roccia si riversò nel bacino della diga in località Pontesei, che era stata completata solo due anni prima dalla SADE stessa ed era tenuta sotto stretta osservazione per la presenza in loco di ben due frane: quella di “Pontesei-Fagarè”, origine dell’inondazione e quella di “Pontesei spalla diga”. L’onda generatasi uccise l’operaio Arcangelo Tiziani della ditta Cargnel, mentre due tecnici della SADE riuscirono a salvarsi.

I successivi avvenimenti sono determinanti per analizzare il mutato atteggiamento dei tecnici della SADE, in particolare una lettera del giorno successivo (23 marzo):

«Ti prego di rileggere la relazione che al riguardo ti ho inviato ai primi di luglio 1958: ciò che è avvenuto vi è previsto con una esattezza sconcertante.»

(dalla lettera del geologo Pietro Caloi, che sta studiando la zona della diga dal 1953, all’Ing. Tonini della Sade)

In un’altra missiva del 27 marzo sempre relativa a Pontesei, Caloi afferma:

«Rassicuri l’ing. Biadene: la discrezione è nel mio costume. Piuttosto, se mi posso permettere un consiglio, suggerisco di trarre le naturali conseguenze dal fatto.»

(dalla lettera del geologo Pietro Caloi, che sta studiando la zona della diga dal 1953, all’ing. Rossi Leidi della SADE)

Gli scritti di Caloi sono esemplari per evidenziare sia perché mutò l’atteggiamento della SADE dopo i fatti di Pontesei che la spinsero sensatamente ad approfondire gli studi sul bacino del Vajont, sia per dimostrare un atteggiamento di connivenza o quantomeno di sudditanza di alcuni tecnici, rispetto all’operato della stessa (secondo alcuni autori in quanto iscritti nel “libro paga” della ditta).

A tale proposito Edoardo Semenza scrive:

«Fu come se suonasse improvvisamente un campanello d’allarme. Infatti le manifestazioni di instabilità di quel versante, da sempre esistite e note ai tecnici della SADE, non avevano mai destato particolari preoccupazioni, in quanto si riteneva trattarsi di fenomeni di scarsa entità. Questo franamento, e in particolare la sua velocità e la sua compattezza, furono invece un ammonimento a prendere in maggiore considerazione questo tipo di fenomeni.»

(E. Semenza, La storia del Vajont)

Al riguardo il tribunale dell’Aquila stabilì che la frana di Pontesei fosse discesa in circa due minuti.

Nonostante Dal Piaz in una sua relazione legata alla costruzione della strada di circonvallazione in sponda sinistra del Vajont del 29 ottobre 1959 avesse ritenuto che non vi fossero rischi concreti di frane pericolose, gli avvenimenti di Pontesei avevano convinto la SADE ad approfondire il tema. L’incarico di approfondire lo studio delle sponde del bacino del Vajont fu quindi affidato a Müller, che come geomeccanico stava già seguendo i problemi delle imposte della diga.

Le verifiche sulle sponde individuano la grande frana sul versante sinistro del bacino

Eseguito un sopralluogo sul posto il 21 luglio 1959, Müller commissionò un piano di studio inizialmente solo in modo informale.

Detto studio venne affidato al geologo Edoardo Semenza – figlio del capo progettista Carlo Semenza – che fu poi coadiuvato dal geologo Franco Giudici. Semenza scoprì in una ricognizione sul campo la presenza, nel versante sinistro della valle del Vajont, di evidenti pericoli derivanti da una zona di miloniti non cementate, lunga circa 1,5 km[8]. Ciò indusse Edoardo Semenza ad ipotizzare la presenza di una paleofrana, che interessava tutta l’area a più bassa quota del monte Toc che partendo dalle pareti scoscese sulla forra del torrente Vajont a nord (“Castelletto”, “Punta del Toc” e “Parete Nord del Toc”) superava la parte più pianeggiante delle pendici della montagna (“Pian del Toc” e “Pian della Pozza o della Paùsa”) risalendo poi (in direzione sud) la dorsale in modo più impervio verso il “Torrione di Punta Vasei” e il “Becco del Toc”. Informato della scoperta Müller formalizzò un piano di studio approfondito basato su una sua proposta scritta molto dettagliata inserita nel suo 6º rapporto del 10 ottobre 1959. La relazione definitiva Giudici-Semenza fu consegnata poi ufficialmente agli inizi di giugno 1960.

Le scoperte fatte avevano anche suggerito di eseguire una indagine geosismica attraverso la supposta paleofrana che venne affidata al Prof. Pietro Caloi. I risultati ottenuti (novembre 1959) sembravano invece indicare che la zona a sinistra della vallata fosse “eccezionalmente” solida, rocce compatte coperte da soli 10-20 metri di detriti sciolti. Il rapporto di Caloi fu consegnato in via definitiva il 4 febbraio 1960.

I risultati agli antipodi dei due studi imposero un approfondimento del tema che fu favorito dagli avvenimenti successivi.

La prima prova d’invaso e le piogge evidenziano la grande frana

Il fronte della frana sul versante settentrionale del Toc, con ancora evidenziata la grande “M”.
Nel frattempo i lavori di costruzione del manufatto erano continuati e nel settembre del 1959 la diga era ultimata. Il 28 ottobre 1959 la SADE avanzò domanda di invaso sperimentale fino a quota 600m s.l.m., che fu approvata fino a quota 595m s.l.m. il 9 febbraio 1960.

Nel mese di marzo del 1960, quando l’invaso del Vajont si trovava all’incirca a quota 590 m s.l.m. nella parete settentrionale del Toc prospiciente la valle (nella parte ad est del torrente Massalezza praticamente di fronte al bivio per Casso) si verificò il crollo di una piccola porzione della “Parete Nord del Toc” vicino alla sua base occidentale. Inoltre si assistette alla rimobilitazione del “Castelletto del Toc” posto subito a ovest del torrente Massalezza e prospiciente la “Punta del Toc”.

Continuavano nel frattempo le indagini suggerite da Müller che nel maggio del 1960 portarono all’installazione dei primi capisaldi destinati a identificare eventuali movimenti franosi del Toc attraverso misure topografiche. Le misure, fatte con l’invaso a quota 595m s.l.m., rilevarono movimenti della parte più a nord del Toc, con velocità che risultarono crescenti nei mesi successivi.

Il 10 maggio 1960 la SADE chiese l’autorizzazione a portare l’invaso a quota 660m s.l.m. senza prima procedere con lo svaso, e la relativa autorizzazione venne concessa l’11 giugno 1960. Negli stessi giorni venne consegnata anche la relazione definitiva dello studio Giudici-Semenza, nel quale veniva confermata la supposta presenza della grande frana.

Il 9 luglio 1960 venne consegnata la relazione di Dal Piaz a proposito della stabilità dei versanti di tutto il bacino. Per il versante settentrionale del Toc essa in sostanza negava l’esistenza della frana-paleofrana.

Nel frattempo proseguivano le verifiche di Semenza relative alla sua ipotesi della paleofrana. In particolare egli scoprì tra la fine di luglio e il 2 agosto 1960 il probabile margine meridionale della paleofrana (ossia la parte montana della stessa e più vicina alla cima del Toc) in corrispondenza del punto di separazione del torrente Massalezza nei due rami occidentale e orientale convergenti a “Y” nel corso principale e di solito asciutti. In essi si poteva osservare il passaggio dalla roccia sana affiorante a sud (lato montagna), a quella frantumata o finemente macinata affiorante a nord (lato valle del Vajont).

Sul finire del mese di ottobre 1960 con l’invaso all’incirca a quota 645m s.l.m., mentre i movimenti della frana raggiungevano e superavano l’allarmante velocità di ben 3 cm al giorno (che non venne più raggiunta fino nell’imminenza del distacco nel 1963), sulle pendici del monte Toc (da quota 1200 verso il basso) fece la sua comparsa la fessura perimetrale lato montagna della massa in movimento. I suoi margini laterali risultavano evidenti solo nella parte a maggior quota, mentre apparivano scarsamente percepibili alle quote più basse. Questa grande fessura che sulla montagna disegnava grossomodo un grande “M” (letta dal lato del torrente Vajont), larga tra 50 cm e 1m, si immergeva in profondità con una inclinazione di circa 40°. Le due punte della “M” partivano da quota 1200m s.l.m. e 1400m s.l.m. e arrivavano fino a circa quota 600m s.l.m.

Il 4 novembre 1960 ci fu un segnale d’allarme presagio della catastrofe: circa 750.000 m³ di terra e roccia (la cui parte prospiciente la forra si era già mossa accasciandosi qualche decina di metri più in basso fin dalla primavera di quell’anno) franarono nel bacino, che si trovava con l’acqua a quota 650m s.l.m.

I nuovi studi proposti e i tentativi di salvare l’impianto

Carlo Semenza, progettista della diga e ideatore della “galleria di sorpasso o bypass” sul versante destro della valle del Vajont. I movimenti sull’intero fianco della montagna, che interessavano un fronte di quasi 3 km, con evidenti segni di movimenti trascorrenti sui lati della grande “M” che si era venuta a formare (indice che il movimento della massa era parallelo a quello della linea laterale di rottura e quindi era in direzione nord ossia verso il bacino), pur se non interpretati in modo unanime (le discordanze riguardavano oramai solo la profondità della massa in movimento e quindi l’effettivo volume in metri cubi della stessa) segnarono un momento di svolta.

I dirigenti della SADE interpellarono immediatamente Müller che dopo alcuni sopralluoghi consigliò loro di abbassare il livello del lago. Venne dunque eseguito uno svaso controllato (5m in due giorni) e graduale (seguito quindi da un riposo di quattro giorni con bacino a livello costante). Questo permise un immediato rallentamento dei movimenti e con l’acqua all’incirca a quota 600m s.l.m., un arresto quasi definitivo (dicembre 1960).

Venne subito eseguita (dicembre 1960) una nuova indagine geologica (diretta ancora da Caloi) dalla quale emerse che la roccia ora aveva caratteristiche meccaniche pessime. Alcuni autori ritengono che la precedente indagine di Caloi (nella quale erano stati esclusi problemi di sorta per le pendici del monte Toc) non fosse stata eseguita o interpretata correttamente. La relazione fu consegnata ufficialmente il 10 febbraio 1961.

Resosi conto che la caduta di una frana (anche nell’ipotesi più ottimistica sul volume) avrebbe reso inservibile il serbatoio ostruendone la “foce” e ponendo in pericolo anche il resto della valle (con un incontrollato aumento delle acque del lago), Carlo Semenza propose la costruzione di una galleria (passata alla storia con il nome di galleria di sorpasso o bypass) che passando sotto al monte Salta sul versante destro della valle, riuscisse a superare la zona “pericolante” sul fianco sinistro del Vajont.

La galleria fu scavata tra il febbraio e il settembre del 1961 con imbocco a est presso il Mulino delle Spesse a quota 617,4m s.l.m. (vi si può accedere ancora scendendo dalla strada che da Erto porta alla diga svoltando a sinistra prima della galleria artificiale paramassi) e sbocco a ridosso della diga a quota 600,7m s.l.m. Questo impose di mantenere l’acqua del serbatoio sotto questo livello per tutto il periodo dei lavori. Vennero inoltre realizzate due finestre di servizio al ponte di Casso (613,9m) e al ponte del Colomber (608m).

Nuovi elementi di studio: il 15º rapporto Müller

Il rapporto consegnato da Müller il 3 febbraio 1961, noto comunemente come il numero progressivo 15º in quanto era per l’appunto il suo 15º rapporto, si occupava esclusivamente della frana delle pendici del monte Toc ed è da sempre uno dei punti di maggior contrasto tra gli autori che si sono occupati delle vicende del Vajont.

Pur non concordando con Giudici-Semenza sull’ipotesi della paleofrana, il geomeccanico austriaco concorda con loro sul fatto che vi sia sul fianco sinistro del Vajont una grande frana, indicando come a suo parere non esistano dubbi sulla profonda giacitura del piano di scivolamento (spessore della frana) e ipotizzando una massa in movimento di circa 200 milioni di metri cubi di materiale (errando di circa un quarto in meno rispetto a quanto sarà poi verificato in seguito), ma fornendo tuttavia uno dei dati di previsione più precisi allora disponibili.

Questa individuazione abbastanza precisa della massa in movimento, fu di fatto il motivo del contendere tra i vari autori, in quanto i sostenitori della tesi della prevedibilità hanno sempre utilizzato questo rapporto per dimostrare che non era possibile che i tecnici della SADE prima, ENEL-SADE poi, non avessero chiaramente in vista i valori delle masse in gioco. E del perché nelle prove sul modello idraulico (che verrà attrezzato a Nove e di cui si tratterà nel paragrafo successivo) non ne siano mai state eseguite partendo dalla sua ipotesi dei volumi in movimento.

Effettivamente la sua relazione rimane illuminante sotto molti aspetti, sia per quel che riguarda l’individuazione della correlazione tra livello dell’acqua del lago e precipitazioni rispetto ai movimenti della frana, sia per aver fornito tutta una serie di misure da effettuare e contromisure da poter utilizzare, per poter risolvere i problemi che stavano attanagliando il serbatoio.

Studi sul modello idraulico del bacino

Dopo la scoperta della frana delle pendici settentrionali del monte Toc, si decise di approfondire gli studi sui seguenti effetti:

  1. Azioni dinamiche sulla diga;
  2. Effetti d’onda nel serbatoio ed eventuali pericoli per le località vicine, con particolare attenzione al paese di Erto.
  3. Ipotesi di una parziale rottura della diga e conseguente esame dell’onda di rotta e della sua propagazione lungo l’ultimo tratto del Vajont e lungo il Piave, fino a Soverzene ed oltre.

Lo studio del punto 1 venne eseguito presso l’I.S.M.E.S. (Istituto Sperimentale Modelli e Strutture) di Bergamo (nato nel 1951), mentre per gli altri la Sade decise la costruzione di un modello fisico-idraulico del bacino nel quale poter eseguire alcuni esperimenti sugli effetti della caduta di una frana in un serbatoio.

Il modello in scala 1:200 del bacino, che è tuttora visitabile, fu allestito presso la centrale idroelettrica di Nove (loc. Borgo Botteon di Vittorio Veneto) della SADE e divenne il C.I.M. (Centro Modelli Idraulici). Gli esperimenti furono affidati ai professori Ghetti e Marzolo, docenti universitari dell’Istituto di Idraulica e Costruzioni Idrauliche dell’Università di Padova e furono eseguiti grazie al finanziamento della Sade e sotto il controllo dell’ufficio studi della società stessa.

Lo studio si prefiggeva di verificare gli effetti idraulici sulla diga e sulle sponde del serbatoio del franamento e fu dunque indirizzato in questo senso piuttosto che a riprodurre il fenomeno naturale della frana. Gli esperimenti vennero condotti in due diverse serie (agosto-settembre 1961 e gennaio-aprile 1962), delle quali la prima servì sostanzialmente per affinare il modello.

La prima serie di esperimenti

La prima serie di 5 esperimenti ebbe inizio il 30 agosto 1961 con una superficie di scivolamento della frana piana inclinata di 30°, costituita da un tavolato di legno rivestito da una lamiera. La massa franante era simulata da ghiaia trattenuta tramite reti flessibili metalliche, che venivano inizialmente trattenute in posizione mediante funi allentate poi all’improvviso.

All’inizio di settembre furono eseguite altre 4 prove destinate ad avere scopo orientativo. La prima sempre con un piano inclinato di 30°, le seguenti 3 con un piano inclinato di 42°. Riscontrata l’impossibilità di riprodurre nel modello il naturale fenomeno geologico della frana, il modello venne elaborato modificando la superficie di movimento della frana che venne sostituita con una in muratura (i relativi profili furono elaborati da E.Semenza che per redigerli si avvalse anche dei sondaggi che erano già stati effettuati e che avevano fornito sufficienti elementi di giudizio in questo senso) e per rendere possibile la variazione della velocità di caduta della frana nel serbatoio (resa difficile dalla nuova forma “a dorso” della superficie di movimento) e simulare la compattezza del materiale in movimento (che nel modello rimaneva la ghiaia) vennero inseriti dei settori rigidi che vennero trainati attraverso delle funi tirate da un trattore.

La seconda serie di esperimenti

In questi 17 esperimenti condotti dal 3 gennaio 1962 al 24 aprile 1962 il materiale “franante” era ancora della ghiaia questa volta trattenuta attraverso delle reti di canapa e delle cordicelle. Partendo dall’ipotesi di Muller relativa alle diverse caratteristiche della massa in movimento tra la parte a valle del torrente Massalezza (ovest) e la parte a monte dello stesso (est), tutti gli esperimenti furono compiuti facendo scendere quelle due ipotetiche parti della frana separatamente. Nel modello tuttavia le due frane vennero fatte scendere inizialmente in tempi diversi in modo che i loro effetti fossero totalmente separati e successivamente quando l’ondata prodotta dalla prima tornava indietro in modo da ottenere un sovralzo totale dell’acqua del lago anche maggiore.

La relazione finale Ghetti

Il sovralzo totale dell’acqua del serbatoio (misurato attraverso appositi strumenti) veniva scomposto in “sovralzo statico” che era l’effetto non transitorio di aumento del livello dell’acqua rimasta nel serbatoio dopo il franamento per effetto dell’immersione della frana nel serbatoio (una volta raggiunto nuovamente lo stato di quiete) e in “sovralzo dinamico” dovuto al moto ondoso temporaneo prodotto dal franamento.

Il sovralzo statico dipendeva dal volume della frana che rimaneva immerso nel serbatoio, mentre il sovralzo dinamico dipendeva quasi esclusivamente dalla velocità di caduta della frana (mentre era trascurabilmente legato al volume della stessa).

In base a questa simulazione (in seguito al disastro oggetto di critiche, poiché considerata da alcuni approssimativa) si determinò che il limite di invaso a quota 700m non avrebbe provocato danni sopra quota 730m s.l.m. lungo le sponde del serbatoio, mentre una minima quantità d’acqua avrebbe superato il ciglio della diga (722,5m) procurando danni trascurabili a valle della stessa.

«Con le esperienze riferite, svolte su un modello in scala 1:200 del lago-serbatoio del Vajont, si è cercato di fornire una valutazione degli effetti che verranno provocati da una frana, che è possibile abbia a verificarsi sulla sponda sinistra a monte della diga. Premesso che il limite estremo a valle dell’ammasso franoso dista oltre 75 m. dall’imposta della diga, e che la formazione di questa imposta è di roccia compatta e consistente e ben distinta, anche geologicamente, dall’ammasso predetto, non è assolutamente da temersi alcuna perturbazione di ordine statico alla diga col verificarsi della frana, e sono perciò da riguardarsi solo gli effetti del rialzo ondoso nel lago e nello sfioro sulla cresta della diga in conseguenza della caduta.

Le previsioni sulle modalità dell’evento di frana sono quanto mai incerte dal punto di vista geologico. Scoscendimenti parziali di limitata entità ebbero a verificarsi negli ultimi mesi del 1960 nella parte più bassa della sponda in movimento in concomitanza coll’iniziale, ed ancora parziale, riempimento dell’invaso. La formazione franosa si estende su una fronte complessiva di 1,8 km., dalla quota 600 alla quota 1.200 m.s.m. (quota di massimo invaso del lago-serbatoio 722,50 m.s.m.). L’esame geologico porta a riconoscere una presumibile superficie concoide di scorrimento, sulla quale l’ammasso franoso, costituito da materiale incoerente e detriti di falda in prevalenza, raggiunge nella parte centrale (a cavallo dell’asta del torrente Massalezza) lo spessore di 200 m. L’andamento della scarpata è più ripido nella parte inferiore che sovrasta il lago; ad un cedimento di questa parte sarebbe probabilmente seguito lo scoscendimento dell’ammasso superiore.

È da ritenersi che l’eventuale discesa della frana difficilmente potrà manifestarsi contemporaneamente su tutta la fronte; è più fondata invece l’ipotesi che scenderà per prima l’una o l’altra delle due zone poste a monte o a valle del torrente Massalezza, e che questo scoscendimento sarà seguito, a più o meno breve intervallo, da quello della restante zona.»

(Relazione Ghetti 4 luglio 1962)

«Questi dati sembrano sufficientemente indicativi dell’entità che il fenomeno ondoso può presentare pur nelle più sfavorevoli previsioni di caduta dell’ammasso franoso. Si fa osservare che il sovralzo riscontrato in prossimità della diga è sempre superiore a quello che si manifesta nelle zone più distanti lungo le sponde del lago. Passando a considerare gli effetti della frana che sopravvenga a lago non completamente invasato, si ha dalle prove che già con l’invaso portato a quota 700 m.s.m. l’evento più sfavorevole, e cioè la caduta della zona a valle in 1 min. a seguito di precedente caduta della zona a monte, provoca appena, con sovralzo di 27 m. presso la diga (e massimo di 31 m. a 430 m. da essa) uno sfioro poco superiore a 2.000 mc/s. Partendo dalla quota d’invaso 670 m.s.m. anche con la frana più rapida il sovralzo è assai limitato e ben al disotto della cresta di sfioro.

Sembra pertanto potersi concludere che, partendo dal serbatoio al massimo invaso, la discesa del previsto ammasso franoso solo in condizioni catastrofiche, e cioè verificandosi nel tempo eccezionalmente ridotto di 1-1.30 minuti, potrebbe arrivare a produrre una punta di sfioro dell’ordine di 30.000 mc/s., ed un sovralzo ondoso di 27,5 m. Appena raddoppiando questo tempo il fenomeno si attenua al disotto di 14.000 mc/s di sfioro e di 14 m. di sovralzo.

Diminuendo la quota dell’invaso iniziale, questi effetti di sovralzo e di sfioro si riducono rapidamente, e già la quota di 700 m.s.m. può considerarsi di assoluta certezza nei riguardi anche del più catastrofico prevedibile evento di frana. Sarà comunque opportuno, nel previsto prosieguo della ricerca, esaminare sul modello convenientemente prolungato gli effetti nell’alveo del Vajont ed alla confluenza nel Piave del passaggio di onde di piena di entità pari a quella sopra indicata per i possibili sfiori sulla diga. In tal modo si avranno più certe indicazioni sulla possibilità di consentire anche maggiori invasi nel lago-serbatoio, senza pericolo di danni a valle della diga in caso di frana.»

(Relazione Ghetti 4 luglio 1962)

«La fase conclusiva sulla quota di sicurezza è come un corpo estraneo nel contesto della relazione. Le esperienze sono state condotte con dati di partenza non aderenti alla realtà, dati forniti dalla SADE; anche i dati di taratura sono da considerare contraddittori per quanto riguarda la velocità delle frane. È mancata agli sperimentatori l’assistenza di un geologo o di un geomeccanico, donde la sorprendente richiesta della granulometria della frana, la respinta giustificata della proposta di usare dei cubetti di dimensioni non precisate, l’impiego di una superficie di scorrimento non razionale, la mancata ricerca bibliografica nella letteratura geologica.»

(Relazione Ghetti 4 luglio 1962)

Tuttavia il modello in scala della probabile frana non risultò successivamente attendibile, trascurabilmente poiché il modello della frana era composto di materiali diversi da quelli originali (invece di usare una massa compatta per simulare la frana, venne usata della ghiaia, che produsse effetti leggermente minori di una massa dello stesso volume, ma più compatta) e principalmente perché lo studio partì da un errore di base nella valutazione del tempo di caduta della frana (valore determinante per calcolare correttamente il sovralzo dinamico). Tuttavia, in una riunione del 30 marzo 1962, venne espressa dai tecnici la convinzione che il tempo di 1 minuto per la caduta della frana sperimentato da Ghetti fosse troppo breve. Il che probabilmente convinse molti che anche superare la quota di 700m s.l.m. non avrebbe generato alcun tipo di pericolo anche nel caso di caduta della frana.

La seconda prova di invaso

La seconda prova di invaso fu eseguita sotto il nome dell’ing. Pancini che decise di invasare fino ad una certa quota per poi eseguire uno svaso rapido. Lo scopo di questa prova era di far cadere a “pezzi” il monte Toc. Il tutto sembrò funzionare, ma non si verificò una frana dalle dimensioni ipotizzate. Così fallì la seconda prova d’invaso.

La terza prova di invaso

Dal 1961 al 1963 furono praticati numerosi invasi e svasi per limitare il più possibile le possibilità di smottamento del terreno circostante la diga: il 4 settembre 1963 si arrivò a quota 710 m. Gli abitanti della zona denunciarono movimenti del terreno e scosse telluriche, inoltre venivano chiaramente uditi boati provenienti dalla montagna.

Il Disastro

Nel 14 marzo 1963 avviene il conferimento ad ENEL, con conseguente avvio di una fase di passaggio delle consegne e cioè della assunzione del controllo e della presa in carico delle responsabilità operative esecutive. A cavallo di questi critici mesi, vi è l’avvio del necessario processo di presa di conoscenza dell’impianto e delle criticità, da parte dei funzionari di ENEL, a cui erano assegnati il controllo esecutivo della centrale.

Alla fine dell’estate del 1963, poiché i sensori rilevarono movimenti preoccupanti della montagna, venne deciso di diminuire gradualmente l’altezza dell’invaso, sia per cercare di evitare il distacco di una frana, sia per evitare che una possibile frana potesse provocare un’onda che scavalcasse la diga. Ma alle 22,39 del 9 ottobre 1963 si staccò dalla costa del Monte Toc (che in friulano, abbreviazione di “patoc”, significa “marcio”) una frana lunga 2 km di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra. In circa 20 secondi la frana arrivò a valle, generando una scossa sismica e riempiendo il bacino artificiale.

L’impatto con l’acqua generò tre onde: una si diresse verso l’alto, lambì le abitazioni di Casso e ricadendo sulla frana andò a scavare il bacino del laghetto di Massalezza; un’altra si diresse verso le sponde del lago e attraverso un’azione di dilavamento delle stesse distrusse alcune località in Comune di Erto e Casso e la terza (di circa 50 milioni di metri cubi di acqua), scavalcò il ciglio della diga, che rimase intatta, ad eccezione del coronamento percorso dalla strada di circonvallazione che conduceva al versante sinistro del Vajont, e precipitò nella stretta valle sottostante.

I circa 25 milioni di metri cubi d’acqua che riuscirono a scavalcare l’opera raggiunsero il greto sassoso della valle del Piave e asportarono consistenti detriti che si riversarono sul settore meridionale di Longarone causando la quasi completa distruzione della cittadina (si salvarono il municipio e le case poste a nord di questo edificio) e di altri nuclei limitrofi e la morte, nel complesso, di circa 2000 persone (i dati ufficiali parlano di 1918 vittime, ma non è possibile determinarne con certezza il numero).

È stato stimato che l’onda d’urto dovuta allo spostamento d’aria fosse di intensità eguale, se non addirittura superiore, a quella generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima.

Alle ore 5:30 della mattina del 10 ottobre 1963 i primi militari dell’Esercito Italiano arrivarono sul luogo per portare soccorso e recuperare i morti. Tra i militari intervenuti vi erano soprattutto Alpini, alcuni dei quali appartenenti all’arma del Genio che scavarono anche a mano per riuscire a trovare i corpi dei dispersi. Questi trovarono anche alcune casseforti delle banche del paese, non più apribili con le normali chiavi, in quanto molto danneggiate.

Anche i Vigili del Fuoco provenienti da 46 Comandi Provinciali parteciparono in massa ai soccorsi, con un impiego di 850 uomini, tra Nuclei Somozzatori, Terra ed Elicotteristi, ed un grande numero di automezzi ed attrezzature. Il Nucleo Sommozzatori di Genova, con 8 unità di personale, venne adibito, in particolare, nel bacino antistante la Diga di Busche, al dragaggio per ricerca salme e fustame di sostanze tossiche (61 fusti di cianuro), con successiva perlustrazione mediante immersione e finale rimozione dei fanghi a bacino prosciugato.

Dei circa 2000 morti, sono stati recuperati e ricomposti sommariamente solo 1500 cadaveri, la metà dei quali non è stato possibile riconoscere.

 

Da sapere su

Longarone
L’origine del nome è incerta, ma l’ipotesi più probabile è che derivi da “longaria”, da “longus”, nel senso di distesa striscia di terra. È certo che la storia primitiva di Longarone si confonde con quella del più importante centro vicino di Castellavazzo. La storia municipale si rende autonoma solo con la costituzione del Comune, avvenuta per opera di Napoleone nel 1806. Longarone seguì, nel medioevo e nell’epoca moderna, la storia di Belluno. Ebbe la dominazione dei Vescovi, nel 1250 di Ezzelino da Romano; nel 1300 subentrarono gli Scaligeri, poi i da Carrara e i Visconti. Col 1420 passò sotto il dominio dello Stato Veneto.

Frazioni di

Longarone
Castellavazzo, Codissago, Dogna, Faè, Fortogna, Igne, Olantreghe, Pirago, Muda, Maè, Podenzoi, Provagna, Rivalta, Roggia, Soffranco

Luoghi del Vajont

  • A Fortogna vi è il cimitero delle vittime del Vajont, a Longarone il museo della pietra viva e a Podenzoi la cappella votiva del Vajont.
  • A Longarone arriva l’Alta via n. 3 che parte da Villabassa.
  • A Longarone: Museo Longarone Vajont Attimi di storia

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